Di solito l’assemblea generale dell’Onu, in corso in questi giorni al palazzo di vetro a New York, si svolge tra dichiarazioni d’intenti pacifiste e promesse di collaborazione interstatale poi puntualmente disattese. A rompere questo muro d’ipocrisia è stato Fayez al-Sarraj, il premier del governo libico di unità nazionale (Gna), che ha parlato di Haftar, suo principale contendente per la leadership nel paese, come di un “criminale assetato di sangue”. Poi ha fatto i nomi degli Stati che lo sostengono: Emirati Arabi Uniti, Egitto e Francia. Abbiamo parlato con Michela Mercuri, docente e analista di politica estera, per capire il senso delle sue esternazioni e fare il punto sulla situazione attuale in Libia, teatro in questi giorni di nuove offensive militari.  Infatti Haftar nei giorni scorsi ha intensificato l’assedio di Tripoli, mentre un raid aereo statunitense anti-Isis, avvenuto il 24 settembre a Murzuq, a sud di Tripoli, ha fatto 11 vittime. Eppure il ministro Luigi Di Maio, che presiederà a breve col suo omologo francese Le Drian un tavolo dei ministri degli Esteri, ha dichiarato che l’incontro “mira a parlare con una voce unica sul dossier libico”. Ma fino ad oggi non è stato così.



Che significato hanno le parole di Sarraj all’Onu, che ha parlato per la prima volta apertamente di interferenze facendo anche il nome eccellente della Francia?

Sarraj vuole dimostrare di essere lui ora l’uomo forte in Libia, e di non avere più paura di Haftar. Ma questa uscita è rivolta agli alleati di Haftar, vuole chiedergli: “Da che parte state?”. Sono gli ultimi sviluppi militari a dargli ragione: il 4 aprile Haftar è ha iniziato l’assedio di Tripoli, cercando di risolvere la situazione con la forza ma ha fallito, e ora sta perdendo il consenso degli alleati.



Quindi le alleanze in Libia stanno cambiando? 

C’è una prova, molto importante e che è passata ampiamente inosservata: gli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi che hanno sostenuto Haftar, hanno firmato un comunicato congiunto con gli Usa e altri attori regionali, che chiede di rispettare la terzietà della Noc, l’autorità petrolifera libica. Haftar voleva creare un nuovo consiglio amministrativo indipendente dalla Noc, per mettere le mani sulla gestione del petrolio libico: quel comunicato per lui è stato un colpo durissimo.

Haftar ha dichiarato di volere il dialogo, ma 4 giorni fa ha iniziato una nuova offensiva su Tripoli. Si tratta di un intervento militare decisivo o solo di una provocazione?



Credo sia più una provocazione, volta a sedersi al tavolo delle trattative per la stabilizzazione della Libia che potrebbero tenersi prossimamente a livello internazionale. Ad Haftar non restano molte risorse: i pochi uomini che gli rimangono fedeli, il sostegno di alcune tribù e qualcuno parla anche di contatti con gruppi jihādisti. C’è poi una notizia non verificata: 100 uomini del gruppo Wagner, mercenari russi, sarebbero arrivati a sostegno di Haftar qualche giorno fa, e potrebbero aver partecipato alla nuova offensiva che si è tenuta contro Tripoli nei giorni scorsi. Ma detto ciò, non dobbiamo pensare che Haftar stia mollando del tutto la presa.

Che cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro tra Di Maio e il ministro degli Esteri francese Le Drian, in programma venerdì 27 settembre? Si può fermare l’attivismo francese in Nordafrica?

Non dobbiamo aspettarci molto, non sarà certo questo incontro a fermare l’attivismo della Francia in Nordafrica e in particolare in Libia, che continua ininterrotto dal 2011, quando partì l’attacco a Gheddafi. Macron pochi giorni fa è venuto a Roma a incontrare Conte, che poco prima aveva visto Sarraj. Questo incontro serviva a ingraziarsi l’Italia, che di Sarraj è alleata storica, e per provare a salire sul carro del vincitore. Il nostro governo deve assolutamente evitare di farsi scavalcare dalla Francia o da altri attori internazionali.

Quindi l’Italia è in una buona posizione. Cosa deve fare il nostro governo in questa fase?

L’Italia ha una posizione di vantaggio che va salvaguardata: abbiamo sempre sostenuto Sarraj, in Libia abbiamo un ospedale da campo e un bravissimo ambasciatore, Giuseppe Buccino Grimaldi, che sta facendo un lavoro incessante, mentre non si può dire lo stesso del governo. Non dobbiamo farci rubare questa posizione di forza cedendo alle lusinghe di altri potenziali interlocutori, penso sempre alla Francia.

Gli impianti Eni, che produce il 45% del gas e del petrolio libico, sono in pericolo?

Non credo che in questa fase rischino qualcosa. L’Eni è in grado di cavarsela da sola in Libia, grazie al dialogo ininterrotto che tiene da anni con milizie e tribù locali.

Il raid americano anti-Isis a Morzuq di ieri, che ha fatto 11 vittime, ha un significato particolare in questa fase?

Questo attacco riguarda lo scenario siriano, e lo complica ulteriormente. Però gli scontri in atto in Libia, avulsi dalla presenza ormai residuale dello stato islamico nel paese, possono rallentarne la sua eliminazione definitiva.

L’embargo delle armi alla Libia, rilanciato sempre all’Onu dal premier Giuseppe Conte, è un obiettivo raggiungibile?

L’embargo di armi sulla Libia è una chimera: tutti ne parlano, nessuno lo ha mai visto. Le fazioni in campo comprano armi da chiunque: da attori internazionali come Russia e Francia, o dalle varie potenze regionali. C’è una foto recente di armi turche in mano alle milizie di Misurata, che non provavano neanche a nasconderne la provenienza. Sarebbe ottimo per una de-escalation in Libia, ma al momento solo parlarne è imbarazzante.

Il commercio di armi non si ferma.

Quando Haftar ha colpito il centro migranti di Tajoura c’è stata una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per condannarne l’azione dove si parlava di embargo. Poi non venne praticato da nessuno, in particolare dagli Stati Uniti che tra l’altro in quell’occasione vi si opposero. Gli Usa infatti vendono armi a sauditi ed Emirati, che a loro volta le rivendono a Haftar.

(Lucio Valentini)