“Presto gli equipaggi dei due pescherecci italiani compariranno davanti a un tribunale che dovrà pronunciarsi sul reato da loro commesso”. A dichiararlo, in una intervista a La Stampa, è stato il rappresentante della commissione Affari Esteri del Parlamento di Tobruk, Yusuf Al-Agouri, secondo il quale l’illecito commesso dai 18 marinai, trattenuti in stato di fermo a Bengasi, riguarderebbe l’attività di pesca effettuata in zone considerate dalla Libia come propria Zona economica esclusiva. La vicenda si trascina dal 1° settembre, poche ore dopo la visita in Libia del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, quando alcuni mezzi della marineria di Mazara del Vallo e uno di quella di Pozzallo vengono fermati dalle motovedette libiche. Ora la vicenda rischia di prendere una brutta piega? “È ormai da più di due settimane che gli equipaggi italiani sono trattenuti in Libia – risponde Mauro Indelicato, giornalista esperto di politiche migratorie e del Mediterraneo per ilgiornale.it e Insideover – e soltanto nelle ultime ore si è saputo che forse andranno a processo per attività di pesca illegale, mentre nel frattempo un gran silenzio avvolge i tratti più importanti della vicenda. Non è un bel segno, specie per le famiglie dei protagonisti che aspettano i loro cari a casa”.



Non è la prima volta che pescherecci italiani vengono sequestrati dai libici. Dove sta l’anomalia?

Di solito in passato vicende del genere si risolvevano nel giro di poche ore, al massimo di pochi giorni. Adesso invece la questione si sta trascinando per tutto il mese di settembre e, tra le altre cose, dalla Libia sono giunte specifiche richieste per liberare i nostri marinai. In particolare, è stato chiesto all’Italia di scarcerare ed estradare quattro calciatori condannati per essere stati scafisti e torturatori all’interno di un barcone approdato nel 2015. Le pretese arrivate dall’altra parte del Mediterraneo hanno di fatto reso i membri degli equipaggi italiani non dei soggetti fermati per delle specifiche accuse, ma quasi dei veri e propri ostaggi.



La vicenda quindi non ha solo un risvolto giudiziario, ma soprattutto politico?

Esattamente. Occorre specificare che i pescherecci sono stati sequestrati davanti alle coste dell’est della Libia, regione controllata in gran parte dal Libyan National Army di Haftar e dove l’autorità politica più forte è quella del Parlamento di Tobruk. È quindi possibile che il generale voglia sfruttare questa situazione per ricattare l’Italia.

Il generale Haftar è in grande difficoltà, abbandonato da Turchia e Russia. Cosa vuole ottenere con questo ricatto?

In primis vuole dimostrare di essere ancora un attore importante. Non solo negli ultimi mesi ha perso terreno sotto il profilo militare, ma non ha nemmeno partecipato ai tavoli organizzati in Marocco e non è stato più interpellato politicamente. Per dare un’idea della situazione, quando il ministro Di Maio ha visitato la Libia ha incontrato il presidente del Parlamento di Tobruk ma non Haftar. I pescatori nelle sue mani potrebbero essere pedine da usare per tornare a partecipare agli incontri diplomatici decisivi per il futuro della Libia.



Che cosa dovrebbe fare il nostro paese per risolvere questo sequestro?

Su questa vicenda l’Italia non può cedere nemmeno di un millimetro: i nostri marinai devono tornare a casa, ne va della loro sicurezza e della credibilità del nostro Paese dinnanzi agli attori più importanti della regione.

Il nostro paese può ancora recuperare centralità e autorevolezza in Libia e in quell’area del Mediterraneo?

A livello generale, l’Italia deve senza dubbio tornare ad avere una sua visione nel Mare Nostrum: abbiamo delegato ad altri attori per troppo tempo i dossier più importanti, Roma deve adesso mettere in campo una sua visione. Il rischio è quello di diventare un paese di secondo piano, con tutti i rischi che questo comporta.

(Marco Biscella)