Il 12 gennaio, secondo il calendario liturgico, ha coinciso con l’ultima domenica che chiude il periodo natalizio. Un periodo che da duemila anni ci lascia e ripete lo stesso messaggio dai luoghi, il Medio Oriente, dove nacque Gesù di Nazareth. E questo messaggio è “Pace agli uomini di buona volontà”. Espressione di “comportamento e risultato” che può ben essere utilizzata come una chiave di lettura della questione libica.



Con alle spalle la storia di quanto accadde tra il Regno d’Italia (vigente il debole quarto governo Giolitti), la Francia e l’Impero Ottomano (oggi Turchia), la Libia è diventata per la geopolitica e la geoeconomia da “scatolone di sabbia” a fronte caldo di interesse e di sicurezza nazionale. Nel gioco cabalistico delle date (allora era il 1911), oggi ci troviamo a gestire le conseguenze del 2011, anno della disfatta di Gheddafi.



I lettori sanno dai media quali eventi contraddistinguono la questione libica, che presenta quattro ramificazioni:

1) il cambio degli equilibri nel Mediterraneo a partire dalla Primavera araba fino all’attuale situazione in Siria;

2) l’immigrazione sub–sahariana verso l’Italia e la Ue;

3) lo sfruttamento energetico delle piattaforme sottomarine dell’area Med;

4) il riformarsi di enclave dove reduci Isis foreign fighters in fuga dalla Siria e milizie islamiche favoriscono una mescolanza che può dar luogo a un nuovo bacino di terrorismo.

I lettori sanno pure come un rapporto con questo paese del Nordafrica, di volta in volta conflittuale nel tempo, ma anche economicamente importante per le forniture energetiche italiane tramite l’Eni, richieda di soddisfare una necessità, che si impone: bisogna avere una Libia stabilizzata, unita e stabile. Una Libia che ad oggi non è ancora una nazione in senso occidentale, anche se il post–colonialismo anti–italiano “all’italiana” l’ha aiutata in tale direzione. Una Libia che deve diventare Stato datore di garanzia di risposte a livello internazionale, di risposte a quei quattro item prima menzionati.



Allo stato dei fatti la Conferenza di Palermo del primo governo Conte (abbandonata quasi subito dalla delegazione turca) non ha prodotto nel tempo gli effetti desiderati.
Uguale destino è toccato alle iniziative d’incontro organizzate da Francia, Ue, Russia. Si può dire che sia mancata la “buona volontà” di alcuni tra gli attori mossi da interessi palesi od occulti.

Sarà la Conferenza di Berlino, prevista per domenica 19 gennaio, a porre le premesse utili per la risoluzione del conflitto interno e per un percorso teso a evitare che si trasformi in un conflitto internazionale, prevedibile, per ora, a bassa intensità e asimmetrico?

Per la convergenza di numerosi fattori, a partire da quelli su cui ci hanno edotti in dosi massicce i media in questi giorni, ma soprattutto per le dichiarazioni del presidente Conte, cui hanno fatto seguito quelle del ministro Guerini, nonché per il clima surriscaldato tra opposizione e maggioranza, ritengo utile un consiglio non richiesto.

All’attuale punto di arrivo, e di temperatura critica, della questione libica può essere uno solo il percorso italiano utile e concreto, che lasciando alle spalle recriminazioni e polemiche punti a potenziare e approfondire la traiettoria tracciata.

Ciò implica il rifiuto all’impiego anticipato dello strumento militare e, di contralto, l’esplorazione di ogni possibile soluzione multilaterale diplomatica e non. Ripeto: multilaterale. Questo significa che l’Italia, pur nel realismo machiavellico della situazione, non effettui schieramenti a fronte di contropartite possibili e/o promesse, come quelle talvolta suggerite da esperti ma non sul campo e da studiosi solo a tavolino. Muoversi nel coacervo, spesso paludoso, contraddittorio e sensibile a repentini cambiamenti di fronte, del mondo arabo e africano, islamico o meno, dal Medio Oriente a Gibilterra, non è una passeggiata, né un’escursione da fare con limitata esperienza.

Procedere in sicurezza significa coinvolgere tutti i soggetti interessati alla partita, creandosi per quanto possibile le condizioni, se non le garanzie, contro fraintendimenti doppi manipolati da terzi.

Per tali ragioni Berlino, per non essere come Palermo, oltre a coinvolgere gli attori diretti (comprese le tribù) e indiretti, deve dare chiare indicazioni sull’ipotesi successiva a un mancato raggiungimento dell’obiettivo e su come procedere.

Nell’ipotesi più negativa il prossimo passo deve essere operativo per un embargo delle armi e per i flussi migratori, da qualunque posto provengano, via terra sotto mandato Onu e in modalità aeronavale con una nuova EuNavFor.

Per arrivare a ciò va richiesta la disponibilità e la veridicità sulla buona fede nell’intervento di Russia e Francia come membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, accompagnati “a spinta” da Germania e Tunisia, membri non permanenti 2020/2021 dello stesso Consiglio.

Solo con questo ombrello l’Unione Europea, con la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, viene rafforzata nel tenere coesi i membri in campo. Si ricordi che in Germania vivono sette milioni di turchi. La derivata è facilmente calcolabile. La Francia ha quell’esperienza post–coloniale che la fa attrice forte nel sub-Sahara e in parte nell’Africa Occidentale. E lasciamo da parte Belgio e Olanda per come potrebbero allinearsi sul fattore migrazione, se non lo si classifica come vettore di foreign fighter.

Solo da un coordinamento dell’azione Ue-Onu si capirà se i contendenti libici dovranno sperimentare un’operazione di “peace keeping” o di “peace forcing”. Si capirà se abbiano sensibilità non tribale per esorcizzare lo spettro di una Siria devastata o di una Somalia dilaniata. E soprattutto, se siano così accorti da raccogliere come riscatto anti–coloniale la proposta italiana fino a Berlino e oltre Berlino.

Questo è il difficile, ma non impossibile, obiettivo del governo italiano: far comprendere che la pace è per uomini di buona volontà.