Per la prima volta dal 2014, dopo ben sei anni, rappresentanti di alto livello dell’Egitto si sono recati, lo scorso 27 dicembre, a Tripoli. Un’apertura inaspettata, dato che Il Cairo ha sempre sostenuto il generale Haftar, che però non solo apre a un dialogo importante, ma fa fare un passo deciso in avanti al difficile processo di riunificazione della Libia. L’Egitto è infatti intenzionato ad aprire addirittura una propria ambasciata a Tripoli, oltre a offrire collaborazione in materia di intelligence e cooperazione. “Dopo l’ultimo fallimento delle Nazioni Unite con le dimissioni dell’incaricato Onu per la Libia giunte solo pochi giorni dopo la sua nomina – spiega Sherif El Sebaie, opinionista ed esperto di diplomazia culturale, rapporti euro-mediterranei e politiche sociali di integrazione – l’Egitto ha deciso di muoversi in prima persona per colmare questo vuoto assumendo così una posizione di leadership nel dialogo di pace libico, mosso anche dall’intenzione di allontanare da Tripoli la Turchia, paese che costituisce una minaccia agli interessi egiziani in Nord Africa così come nel bacino del Mediterraneo, ma anche a quelli europei”. L’unica a rimetterci, ci ha detto ancora, “è ancora una volta l’Italia, visti i pessimi rapporti, mai così bassi, tra Roma e Il Cairo di questo periodo”.



Questo incontro tra Libia ed Egitto apre a una svolta importante?

Assolutamente sì. L’Egitto ha colto la rinuncia dell’emissario Onu a svolgere il ruolo di mediatore dopo che ha abbandonato a pochi giorni dalla sua nomina, ancor prima di cominciare il suo lavoro. L’Egitto si è così ripreso il suo ruolo di mediatore dettato anche dalla sua posizione geopolitica fra le due parti in lotta.



Dietro a questa svolta, vista la presenza della Turchia a Tripoli, c’è il tentativo di allontanare Ankara dalla scena?

Sì, l’allargamento della Turchia in generale nel Mediterraneo e in particolare in Libia preoccupa anche la Francia, la Russia, gli Emirati Arabi, tutti i paesi che sono coinvolti nella questione libica. È una presenza che allunga l’instabilità fino ai confini con l’Egitto. Nell’impossibilità o quanto meno nella volontà di non ricorrere all’uso della forza si sta provando sul piano negoziale.

Haftar, di cui l’Egitto è stato fino a oggi sostenitore, come prenderà questa svolta?



Credo che Haftar cercherà di ottenere il più possibile, ha già dimostrato altre volte di essere aperto a possibilità di accordi, purché prendano in considerazione un suo ruolo importante nella futura amministrazione della Libia. Probabilmente la cosa che gli interessa di più è il controllo delle forze armate, essere ministro della Difesa di una futura Libia unita.

L’Egitto diventa il player della situazione: per l’Italia che cosa comporta?

Non certo qualcosa di positivo, considerato che i rapporti tra i due paesi sono al minimo storico da parecchio tempo. Le polemiche recenti, non tanto sui casi Regeni e Zaky quanto sulla possibile interruzione della fornitura di armi all’Egitto, sono segno del deterioramento di questi rapporti, magari non con conseguenze sul piano pratico, almeno per ciò che riguarda i contratti più sostanziosi, ma dal punto di vista dell’immagine e su altri piani, incluso quello economico. Ci sono chiari segnali di regressione. Basta vedere i volumi dell’interscambio economico, che non sono mai stati così bassi.

Tornando alla presenza di Ankara, gli emissari del Cairo hanno chiesto ogni sforzo per allontanare le milizie turche, che come sappiamo sono composte da jihadisti. Questo sarà positivo per tutti, anche per l’Europa?

Certamente. Questo è il motivo principale per cui l’Egitto si è interessato al conflitto libico sin da subito, visto che l’instabilità in Libia favorisce la nascita e il radicarsi di fenomeni di fondamentalismo di matrice jihadista sulla soglia di casa propria.