Caro direttore,
l’ipotesi di invio in Libia di una missione navale Ue avrebbe preso quota venerdì a Bruxelles durante un vertice straordinario di ministri degli Esteri dell’Unione. Ne ha parlato il nuovo “Mr Pesc”, lo spagnolo Josep Borrell, prospettando un possibile rilancio dell’operazione Sophia nel Canale di Sicilia. L’italiano Luigi Di Maio, peraltro, non vi ha fatto alcun accenno, limitandosi a citare il crescente rischio-terrorismo nel degenerare della crisi libica e la necessità di una conferenza internazionale fra “tutti gli attori in campo”, da tenersi prevedibilmente a Berlino. Ieri il cancelliere tedesco Angela Merkel è volata a Mosca per un confronto a vasto raggio con il presidente russo Vladimir Putin. Il passo dev’essere costato parecchio all’acciaccata leader tedesca, da sempre divisa da Putin da inimicizia personale e divergenze politiche. Il summit di ieri è stato tuttavia fruttuoso, almeno nelle prime dichiarazioni: anche se la vera posta in gioco (per la Germania, per l’Italia, per tutta la Ue) è la cancellazione delle sanzioni commerciali verso Mosca, quando gli Usa di Trump ne hanno appena dichiarate altre verso l’Iran.



È comunque su questo sfondo che il vicepresidente della Commissione Ue – il socialista olandese Frans Timmermans – ha lanciato la candidatura dell’ex ministro dell’Interno italiano Marco Minniti come guida di una “iniziativa Ue per la Libia”, peraltro ancora non decisa né in alcun modo delineata. E questo è avvenuto all’indomani di un inizio d’anno caotico e fallimentare sul piano diplomatico: per l’Europa (muta e inerte tanto sulla Libia quanto sull’Iran) e in particolare per l’Italia. Il premier Giuseppe Conte è stato protagonista di un tentativo solitario e improvvisato – dall’esito grottesco – di chiamare a Roma i due leader della guerra civile libica, Khalifa Haftar e Fayez al Serraj; mentre Di Maio si è avventurato in una missione a Istanbul altrettanto velleitaria.



Non è affatto certo che l’Europa di Ursula von der Leyen concretizzi un’iniziativa in Libia, forse destinata a rimanere un classico involucro cartaceo per celare un vuoto di governo. Però dopo che Borrell ha citato “Sophia” e Timmermans ha candidato Minniti qualche riflessione sembra inevitabile: certamente in Italia. Dove – in termini sintetici e crudi – ogni cittadino italo-europeo è autorizzato a temere che la Ue stia preparando al “confine sud” un’ennesima beffa atroce per l’Italia.

Dopo: a) aver destabilizzato  la Libia – e l’Italia (e l’Eni) – nel 2011; b) aver pilatescamente scaricato per anni sull’Italia il peso crescente dei flussi migratori dalla Libia; c) aver combattuto perfino militarmente e infine rimosso un ministro dell’Interno italiano deciso a interrompere la “servitù libica” imposta dalla Ue, ora Bruxelles vorrebbe affrontare la degenerazione finale della crisi libica ripartendo dall’Italia.



“Armiamoci” – sembra annunciare l’eurocrazia – di decisioni burocratiche utili a far partire di nuovo nel Mediterraneo le solite navi militari italiane: quelle che per anni hanno affollato i media per “narrare” quanto civile fosse l’Europa ad aprire le porte (ma solo quelle dell’Italia) ai migranti africani. Vorrebbe, la Ue, che nel Vietnam libico – provocato dalla Francia di Nicolas Sarkozy, oggi sotto inchiesta a Parigi per sospetti finanziamenti elettorali da parte del colonnello Gheddafi – si re-impantanasse oggi un “capitano” italiano. Il quale arriverebbe buon ultimo, a capo di un esercito fatto essenzialmente di buone intenzioni politicamente corrette. E sbarcherebbe in un teatro di guerra dove si stanno nel frattempo muovendo l’Armata Rossa, la neo-Turchia bellicista, i grandi finanziamenti militari provenienti dall’area islamica. Magari all’italiano Minniti verrebbe chiesto di guidare un “laboratorio” di ricostruzione di una difesa europea, molto cara al presidente francese Macron (e forse anche all’ex ministra della Difesa tedesca von der Leyen). Sotto lo sguardo sempre più corrucciato degli Usa.    

Ma perché proprio Minniti? La narrazione sembra pronta. È stato l’autore di un cosiddetto “piano” di dichiarato “successo” nel “regolare” il boom di traffico di esseri umani fra la Libia e l’Italia. Nessuno – a cominciare dal ministro – ha però mai spiegato in che cosa sia consistito concretamente quel “piano”. Fra affermazioni ufficiali, indiscrezioni e congetture più o meno credibili, spicca anzitutto un curriculum senior del deep state italiano. Figlio di un generale dell’Aeronautica, il politico Pci-Ds-Pd è stato sottosegretario alla Presidenza nel governo D’Alema, sottosegretario alla Difesa nell’Amato 2, viceministro dell’Interno nel Prodi 2, sottosegretario alla Presidenza con delega al Copasir (intelligence) con Letta, infine titolare del Viminale con Gentiloni. Certamente il profilo perfetto per “contenere” (stroncare) le partenze degli scafisti nelle diverse terre di nessuno della guerra civile libica: negoziando con le strutture e gli strumenti dell’intelligence in Libia, con regole libiche, con tutti i diversi signori della guerra libici. E a Minniti è stata presumibilmente utile anche una specifica conoscenza politico-sociale del suo territorio d’origine: la Calabria, terra di sbarchi non meno della Sicilia.     

I risultati evidenti nelle statistiche degli sbarchi non hanno però risparmiato a Minniti di essere travolto nel crollo elettorale del centrosinistra di governo al voto 2018. Il ministro stesso è stato battuto sia dal candidato M5s che da quello del centrodestra nella sfida uninominale Pesaro-Urbino ed è stato rieletto solo al plurinominale in Campania. Il suo “piano” ha comunque cessato di funzionare nel momento stesso in cui al Viminale si è insediato Matteo Salvini. Il cui “piano” ha dichiaratamente puntato fin dall’inizio a spezzare una catena oliata da anni fra i due lati nel Canale di Sicilia.

L’operazione Sophia (innervata sugli Accordi di Dublino del 2013) poneva infatti in Italia il terminale europeo del traffico di esseri umani originato nell’Africa continentale, gestito sulla costa dalle milizie tribali libiche e preso infine in carico dai “taxi” navali delle Ong internazionali, come la Sea Watch 3 della tedesca “capitana” Carola Rackete; sotto la vigilanza di marina militare e Guardia costiera italiane. E a terra, in Italia, la gestione dell’accoglienza ha visto impegnate in misura crescente prima alcune località del Sud e poi una fitta rete di Ong nazionali, nel quadro della redistribuzione dei migranti sbarcati.

Rimosso Salvini – e sostituito da Luciana Lamorgese in un governo programmaticamente “europeista” – i suoi decreti sono rimasti in vigore e gli sbarchi sono leggermente diminuiti per l’acuirsi del conflitto interno in Libia. Né il “piano Minniti” né il piano di Salvini (che per quel piano rischia un processo) sono però stati sostituiti da una nuova e promessa iniziativa Ue. Del vertice di Malta a fine settembre (fra i ministri di Italia, Francia, Germania) è rimasto solo un comunicato stampa. Tre mesi dopo, con una drammatica escalation nella guerra civile in Libia, l’ingresso in campo di forze russe e turche e un’allerta crescente anche in Paesi vicini come Egitto e Israele, la Ue rispolvera Minniti e missione Sophia. Quale nesso ci sia fra l’emergenza migranti e una confrontation geopolitica ormai di scala globale in cui si mescolano petrolio e conflitti religiosi, non è chiaro. O forse non appare chiaro in Italia ma lo è invece a Bruxelles: sul modo migliore di scaricare ancora problemi europei sull’Italia. Su come indebolire ulteriormente l’Italia facendo leva sulla Libia. Su come interferire ancora al massimo nella politica interna dell’Italia e nei suoi assetti di governo.