Dopo le immancabili polemiche sull’opportunità di rinnovare o meno il memorandum Italia-Libia, siglato il 2 febbraio 2017 tra il leader onusiano Fayez al-Sarraj e il governo italiano per una più stretta collaborazione con le autorità libiche per il contenimento dei flussi migratori, qualcosa, seppur tardivamente, si è mosso. Il governo di Roma, nonostante i dissidi interni alla maggioranza, ha formalmente chiesto, ai sensi dell’articolo 3 del memorandum, di riunire la commissione congiunta dei due paesi e di modificare l’intesa sul contrasto all’immigrazione clandestina.



È la scelta giusta? Si poteva agire diversamente?

Innanzitutto, seppur sinteticamente, giova ricordare i punti focali dell’accordo ed i risultati fin qui ottenuti.

Il memorandum è stato realizzato in un momento piuttosto delicato della nostra politica interna: l’anno della cosiddetta “crisi migratoria”. Nel 2016 erano sbarcate dalla Libia nelle coste italiane più di 180mila persone e il business dei trafficanti aveva raggiunto, in termini numerici e di introiti, il suo apice. L’allora ministro dell’interno Marco Minniti decise di operare un netto salto di paradigma proponendo di fornire aiuti economici, supporto addestrativo e mezzi alla guardia costiera di Tripoli per contenere gli sbarchi.



In questo contesto, inutile negarlo, furono realizzati accordi anche con alcune milizie che gestivano i traffici poiché il Governo di accordo nazionale (Gna) non garantiva il controllo dei centri e dei gruppi che gestivano i traffici. D’altra parte, con una battuta potremmo dire: se devo comprare una casa non faccio un contratto con l’amministratore di condominio ma con i proprietari dell’immobile, e in quel caso i “proprietari” dei centri e i “gestori” dei traffici erano in via preminente le milizie. Una scelta poco oculata, certo, che non ha fatto altro che legittimare personaggi come il ben noto Bija, trafficate di essere umani “di prim’ordine” promosso, poi, a membro della guardia costiera. Tuttavia, anche se il nome di Bija non era ancora balzato agli onori delle cronache, i fatti erano già noti da tempo.



I risultati? Sbarchi dalla Libia diminuiti di quasi il 90%. Tuttavia la situazione dei centri di detenzione non è migliorata, né le organizzazioni criminali hanno interrotto il loro fiorente business, anche sfruttando altre rotte come quella tunisina.

Fatta questa dovuta precisazione, però, va rimarcato come annullare l’accordo, per quanto questo presenti punti oscuri – come il già citato finanziamento alle milizie –sarebbe un errore. I motivi sono molti.

In primo luogo dobbiamo chiederci: tagliare ogni “ponte” con le autorità di Tripoli potrebbe migliorare la condizione dei migranti in Libia? La risposta non può che essere negativa. È probabile che ritirandoci dagli accordi finiremmo per lasciare mano libera ad alcuni gruppi di potere libici che, si sa, non brillano certo in termini di rispetto dei diritti umani.

In secondo luogo l’assenza di qualunque intesa potrebbe causare “ritorsioni” da parte di alcuni attori locali che potrebbero rendere ancora più difficoltosa la presenza di organizzazioni quali l’Oim e l’Unchr che, seppure tra molte difficoltà, riescono a monitorare, in parte, la situazione e alleviare le condizioni di vulnerabilità dei migranti detenuti nel paese.

Inoltre, tagliare qualunque “filo diretto” con il Gna non gioverebbe alla posizione politica dell’Italia che, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni dalle nostre intelligence, all’ospedale da campo di Misurata e alla presenza della nostra ambasciata a Tripoli, mantiene un piede nel paese, schivando le mire di altri attori internazionali.

È evidente che non stiamo parlando del migliore dei mondi possibili, ma questa è la realtà e con questa dobbiamo fare i conti, cercare di migliorarla e non mandare tutto all’aria.

Come farlo? Innanzitutto l’Italia dovrà attuare una linea politica più muscolare e determinata, cercando di imporre alcune condizioni necessarie per svuotare le carceri libiche – perché, a scanso di equivoci, la Libia non è un porto scuro vista anche la guerra in corso -, favorire i rimpatri e i ricollocamenti, monitorare l’operato, spesso opaco, della guardia costiera,  magari attraverso un principio di condizionalità, erogando aiuti solo se le “attività migliorative” richieste verranno rispettate. Sarà poi necessario dialogare con il Gna e con gli organi governativi, evitando di ricadere nella facile logica di realizzare accordi con le singole milizie.

Tutto ciò, però, non potrà essere realizzato senza una cessazione delle ostilità in corso nel paese, che vanno avanti oramai da 7 mesi, tra l’esercito al soldo di Haftar e le milizie fedeli al Gna. Finché i centri di detenzione saranno oggetto privilegiato dei bombardamenti delle fazioni in lotta poco potrà essere fatto. Prima di ratificare qualunque accordo, dunque, sarà necessario che tutti gli attori coinvolti a vario titolo nella “vicenda libica” si siedano intorno a un tavolo per cercare una soluzione per una de-escalation.

Purtroppo fin qui pochi sembrano davvero intenzionati farlo.