Il perpetuarsi della situazione di estrema conflittualità in Libia ha focalizzato l’attenzione degli osservatori sulle problematiche di un Paese in cui la guerra per procura degli attori internazionali e regionali ha distrutto, forse in maniera irreversibile, ciò che restava di uno Stato divenuto di anno in anno sempre più fragile. In netta controtendenza, un recente rapporto di Confindustria del 6 agosto scorso, interamente dedicato alle prospettive di sviluppo nell’ex Jamahiriya, mostra un quadro più ottimistico che parte dalla ripresa economica del Paese.



In estrema sintesi, nel rapporto si legge che “Per far ripartire in modo duraturo e sostenibile la Libia e il suo tessuto produttivo occorre un piano di investimenti straordinari di almeno 150 miliardi in dieci anni”. Nel breve periodo, sempre secondo le ricerche di Confindustria, sarebbe necessario rilanciare il sistema petrolifero, mentre nel lungo periodo avviare programmi di diversificazione dell’economia per ridurre la marcata dipendenza dal settore degli idrocarburi. Ciò permetterebbe alle imprese italiane di allargare i propri interessi commerciali anche in altri comparti produttivi, come ad esempio quello dell’agri-food, dei macchinari, della chimica e dei metalli.



Come finanziare questa “maxi operazione”? La risposta di Confindustria è abbastanza semplice: “Mobilitare le istituzioni internazionali, specie europee e statunitensi, in modo coordinato e il più possibile sinergico”, erogando prestiti a tassi molto agevolati che la Libia sarebbe in grado di restituire piuttosto facilmente non appena le infrastrutture per l’estrazione del petrolio tornassero a lavorare sui livelli raggiunti nel 2010.

Se confrontiamo le notizie di morti e distruzione che continuano ad arrivare dalla Libia con questa previsione, nella migliore delle ipotesi, potremmo credere di aver confuso Paese.



In primo luogo se è pur vero che la produzione di idrocarburi, nonostante il conflitto, continui a presentare buone performances e l’Eni resti – con i suoi attuali 280mila barili al giorno e numerosi contratti offshore e inshore in essere – il principale partner libico, è anche vero che proprio la compagnia italiana, già nella sua relazione annuale del 2018, aveva preso atto che “La Libia rimane uno dei Paesi di presenza Eni maggiormente esposti al rischio geopolitico”. Detta in altri termini, è rischioso guardare troppo lontano in un Paese in cui oggi non sappiamo ciò che potrebbe accadere domani: chi può garantirci che la produzione potrebbe tornare sia in termini quantitativi sia in termini di gestione dei proventi, solo in parte in mano alla compagnia petrolifera libica Noc, ai livelli del 2010?

In secondo luogo l’idea di prestiti a tasso agevolato è un rischio troppo grande che nessuno è intenzionato a sobbarcarsi. Se da un lato rafforzare i finanziamenti per gli attori locali potrebbe essere un buon viatico per incoraggiare la ripresa economica, dall’altro in uno Stato in mano alle milizie potrebbe risultare controproducente. Se mal gestiti parte dei fondi potrebbero finire nelle mani dei gruppi criminali, riaprendo agli appetiti delle fazioni locali e a nuovi conflitti.

E arriviamo, poi, al ruolo delle imprese italiane. È evidente che il ragionamento di Confindustria si basa su una prospettiva di lungo periodo che presuppone una preliminare stabilizzazione economica e di sicurezza del quadro interno ma, a guardare la realtà dei fatti, più che una prospettiva a lungo termine pare più una chimera. In una sua recente intervista, il presidente della Camera di commercio italo-libica, Gianfranco Damiano, ha fatto notare che i crediti dovuti all’Italia dalla Libia, dal 2011, ammontano a circa 350 milioni di euro. Anche il nostro ambasciatore in Libia Giuseppe Buccino Grimaldi ha ricordato, sempre in un’intervista, che nel 2014 il governo Zeidan accettò di liquidare 234 milioni di euro, ma poi scoppiò la guerra. Oggi il consorzio Aeneas è in difficoltà coi lavori all’aeroporto internazionale di Tripoli investito dai combattimenti, un contratto da 79 milioni di euro che rischia di infrangersi contro le “intemperanze” dei combattenti. Finché non ci sarà la certezza dei pagamenti nessuna impresa sarà disposta ad investire nel Paese. Basti pensare al settore delle infrastrutture: chi avrebbe l’ardire di programmare la costruzione di un qualunque impianto senza la certezza di essere pagato? E poi, con chi firmare i contratti? Detta in altri termini: “chi devo chiamare per parlare con la Libia”?

Per non peccare di eccessivo pessimismo, potremmo dire che, al netto dei conflitti interni e del ruolo invasivo degli attori regionali (Turchia e Qatar da un lato ed Egitto, Sauditi ed Emirati dall’altro) che non intendono “deporre le armi”, l’unica soluzione sensata è quella proposta (anche) da Confindustria: “Mobilitare le istituzioni internazionali, specie europee e statunitensi, in modo coordinato”.

Ma qui arriva la nota più dolente. L’Europa in Libia non esiste e non è mai esistita. Ogni Stato, almeno dal 2011, persegue il proprio interesse nazionale. Parlare di cooperazione europea mentre, solo per citare una delle notizie più recenti, la Francia anziché collaborare con gli altri attori europei per una de-escalation manda i suoi militari a Ras Lanuf probabilmente per operazioni clandestine a sostegno della guerra di Haftar contro Tripoli, è solo un mero esercizio retorico.