Il presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al-Serraj, si è rivolto con una lettera agli Usa, al Regno Unito, alla Turchia, all’Italia e all’Algeria chiedendo “ogni possibile aiuto” a fronte della pressante iniziativa del generale Haftar che minaccia di invadere Tripoli. Non è un caso che le nazioni a cui Serraj si è rivolto siano quelle che diedero il loro sostegno alla lotta contro i terroristi dell’Isis in quel di Sirte, la cosiddetta coalizione “al Bunian al Marsus”. Si tratta di una dichiarazione che segna la fine delle trattative per impedire un confronto militare finale.
Haftar, è vero, arranca da mesi dinanzi a Tripoli e per manifesta incapacità militare non è in grado di espugnarla, così come del resto fece a suo tempo in Ciad, quando solo i francesi e poi gli Usa lo salvarono da una fine personale ingloriosa quanto tragica per lui e per i suoi figli. Ma il problema rimane. La Libia si sta dividendo drammaticamente secondo i vecchi “confini mobili” del tempo pre-coloniale, tra Cirenaica, Tripolitania e, costeggiando il confine algerino, il suo Sud, il Fezzan, che si snoda lungo il Sahara a sud della Tripolitania sopra il Ciad e il Sudan, per risalire poi su, lungo la frontiera egiziana e dipanarsi lungo il Mediterraneo, tra Bengasi e Tripoli.
In questi territori, dopo il crollo dell’Impero ottomano, i Senussi lottarono contro il Regno Unito e l’Italia con una tenacia che pochi popoli al mondo hanno saputo esprimere, con un’intelligenza tattica pari solo a quella etiope ed eritrea, con la differenza che in Libia non ci fu mai un impero come in Etiopia, piuttosto un difficile e precario equilibrio tra poteri corporativi tribali che garantirono la pace armata tra nazioni che noi occidentali chiamiamo tribù.
Il crollo di Gheddafi manu militari – con il consenso italico espresso da Giorgio Napolitano allora Presidente della Repubblica e per mano francese e inglese e l’acquiescenza Usa – non poteva non portare non al dominio incontrastato dell’Europa (come alcuni sostenevano in tutta malafede, o come credevano stupidamente alcuni di vista corta), ma al trionfo del neo “ottomanismo” che si delineò già con il crollo sovietico e che si dispiegò poi con il discorso di Obama al Cairo del 2011, in un contesto che si fa drammatico con il ritiro delle forze armate Usa evocato da Trump. Nulla e nessuno può sostituire la potenza ordinatrice e quindi pacificatrice (la pax romana, beninteso, quella descritta nel De Bello Gallico da Giulio Cesare, non quella impossibile e tragicamente mistificatoria – vedi il genocidio africano ricorrente – dell’Onu) degli Stati Uniti.
L’appello di Serraj, quindi, altro non può che significare che la partita è giocata tutta, con il prossimo arrivo delle armate turche in varie forme ibridate e il sostegno russo che non può non impensierire i dominatori ancora nascosti e inespressi dell’area nord-orientale dell’Africa: la Francia, che non può certo tornare al periodo precedente l’Accordo Sykes-Picot del 1916 ora che il Mediterraneo si rivela per essa l’unica via di uscita da una crisi terribile che invade l’impero francese in terra patria e in Africa, nelle terre del franco africano, dove la pressione dal basso si fa sentire sempre di più sotto la spinta concorrenziale della Cina e, d’altro canto, quella tutta politico-sociale delle giovani generazioni africane alla ricerca di un nuovo anti-colonialismo, come ci ha brillantemente dimostrato Mario Giro nel suo ultimo affascinate libro: Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento.
Serraj non invoca la Francia perché essa è già ben presente in Libia, con una raffinatissima trattativa turco-russo-Saudita, così da posizionarsi sia con l’esercito, sia con le prospettive di continuità del rifornimento finanziario garantito dalle fonti energetiche libiche. La Total non può perdere la Libia, ora che con il Trattato sottoscritto da Libia e Turchia proprio la Francia (e più sicuramente l’Italia) rischia di essere espulsa dal grande gioco energetico mediterraneo. L’accordo di delimitazione dei confini marittimi della Turchia con la Libia è stato inviato alle Nazioni Unite ed è stato ratificato dal parlamento turco, nonostante le vivaci proteste greche all’Onu: “(Il Trattato) è il prodotto del ricatto turco al merlettato governo libico ed è totalmente privo di sostanza … (così continuando il ministro degli Esteri greco) … La mossa turca era stata anticipata da luglio e una serie di azioni erano state intraprese per impedirlo … Nonostante ciò, il governo di Tripoli, ricattato dalla Turchia, ovviamente a causa dei progressi compiuti dal generale Haftar negli ultimi giorni, ha firmato il testo”.
La Turchia, nella migliore tradizione ottomana e araba, gioca su più terreni con arte secolare: il governo turco fa sua la priorità del dossier energetico e così facendo può mettersi in condizione di tramutare le proprie posizioni diplomatiche di potenza, sempre con l’ausilio della forza militare, ed essere così in grado di giocare su più scacchieri, dalla Siria alla Libia, ben tenendo ferme le convenienze di carattere economico e finanziario che delineano il suo interesse nazionale prevalente. E questo nonostante la Grecia abbia dalla sua il diritto internazionale e gli accordi già firmati con ExxonMobil.
Certamente gli Usa non opporranno un passivo silenzio, nonostante le dichiarazioni di disimpegno militare. Ma il trattato turco-libico firmato da Serraj non poteva non scatenare la reazione dell’esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar, il quale sa che Erdogan punta a monopolizzare i propri diritti di estrazione nel Mediterraneo orientale. E qui salta agli occhi il gioco duplice dei turchi che, secondo alcune fonti diplomatiche, poco dopo la firma dell’accordo con la Libia avrebbero rifornito di missili e droni per uso militare il regime di Tripoli dell’improvvido Serraj.
Tutto ciò non fa che presagire una mossa della Turchia per dominare incontrastata sia la Tripolitania, sia la Cirenaica, raggiungendo un – a questo punto – indispensabile accordo con l’Egitto, che non vuole certo perdere la sua influenza sull’Africa Orientale, in ciò fortemente appoggiato dall’Arabia Saudita. Ben sì comprende, allora, come il ritiro Usa sia destinato a sommuovere tutto il quadro geostrategico mediterraneo a partire dal quadro energetico.
E la Francia? La Francia muoverà le sue pedine con forte intensità appena il conflitto giungerà al suo culmine, come è sua tradizione, da Talleyrand a oggi.
l’Europa in questa situazione è straordinariamente assente. La visita del ministro italiano degli Esteri Di Maio è stata un caso da manuale di come non si debbono condurre le trattative diplomatiche. Si parla con entrambi i contendenti da disarmati e non si fa parola di quali siano gli interessi prevalenti della propria patria, in una sconcertante prova di cosmopolitismo che confina con la riproposizione di una nuova ondata di imitazione delle mosse del generale Pétain dinanzi alle nazioni contendenti, e ciò dev’essere detto nonostante i cambiamenti dei ruoli degli attori, della situazione storico-generale, per fortuna ben diversa da quella della Seconda guerra mondiale. Ma sono sempre i segnali deboli che evocano le grandi catastrofi.
Qui la catastrofe è quella dell’insipienza e della vera e propria incompetenza che altro non può portare che alla catastrofe. Mentre l’Europa si divide laddove deve essere concentrato il suo fuoco prevalente di attenzione e di destino, ossia l’Africa, i Commissari europei si trastullano con dichiarazioni al limite del ridicolo e che generano solo incertezza, mentre il mondo cambia al di là dello stretto di Sicilia, mare europeo prima che italiano o francese o turco o greco.
Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza, è intervenuta sulla mediterranea vicenda antropologica della Popolare di Bari, così dicendo: “Può essere molto delicato” valutare l’esistenza di eventuali aiuti di Stato nell’intervento per una banca pubblica “perché non abbiamo a che fare con un partner privato che opera secondo criteri di mercato, ecco perché talvolta questi processi sono molto lunghi… Io cerco di non avere attese… di permettere ai governi di perseguire i loro obiettivi, purché nel rispetto delle regole. Se criteri di mercato sono necessari, se il Governo volesse creare certezza legale, dovrebbe lavorare con noi, per avere certezza legale ed evitare ricorsi giudiziari, e poi se possibile prenderemmo una decisione secondo la quale non vi è aiuto di Stato. Lo abbiamo fatto in vari casi: la tedesca NordLB o la portoghese Cgd, per esempio”. Ma ancora più devastante è la dichiarazione di Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo della Commissione europea, il quale chiede all’Italia di riportare il deficit in linea con quanto previsto dal Patto di stabilità. Una dichiarazione che ribadisce ancora una volta il dominio delle politiche di austerità che altro non fanno che diffondere disperazione, disoccupazione, anomia… La Francia in questo caso diversamente… insegna, con il President Synthétique messo in scacco da una sacrosanta protesta interclassista.
Continuare a sostenere che un Paese possa superare una crisi a forza di riforme strutturali e tagli alla spesa sociale è una cecità di cui tutti porteremo le devastanti conseguenze. Proprio quando si dovrebbe esser chiamati con ingenti spese militari (debito o non debito) a sostenere lo sforzo di normalizzazione dell’area con una sinergica azione delle potenze dominanti l’Europa: Europa che senza le sue nazioni non esiste, ricordiamolo una volta per tutte. L’occaso europeo si consuma sulle spiagge della Libia, mentre le classi di sopra credono nelle magie dell’ordoliberismus e continuano come i ciechi di Peter Brueghel a cadere nel baratro.