L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha incontrato ieri a Tripoli Fayez al-Sarraj, capo del Consiglio di presidenza del Governo libico e leader di Tripoli, sotto attacco da parte del generale Haftar. Un incontro in cui si sono discussi futuri piani di cooperazione e di sviluppo dell’azienda italiana in Libia. Si è anche discusso del progetto Wigc, che di fatto garantisce l’offerta di gas alla popolazione libica. Come ci ha spiegato Michela Mercuri, docente e analista di politica estera, “paradossalmente l’Eni, a differenza di quanto succede di solito e cioè che è la politica ad aprire la strada alle imprese, con la sua attività molto spesso apre la strada alla politica”. È un dato di fatto che il lavoro dell’azienda italiana non è stato minimamente sfiorato dalla guerra civile in atto in Libia, “e non lo sarà mai perché vorrebbe dire per Haftar e Sarraj perdere l’appoggio della popolazione che verrebbe privata del gas: l’Eni ne fornisce il 45% del totale ai libici”.



Che importanza ha questo incontro tra l’amministratore delegato di Eni e Sarraj? Come è possibile che la nostra azienda non solo continui a lavorare, ma aumenti la sua presenza in un paese in stazione drammatica come è la Libia?

L’Italia, storicamente, è in Libia grazie all’Eni. Dal 2011, quando abbiamo pagato il prezzo di aver condotto una guerra contro i nostri stessi interessi, abbiamo riguadagnato posizioni grazie al lavoro dell’Eni. È un paradosso, in quanto dovrebbe essere la politica ad aprire la strada alle imprese, invece in questo caso specifico è l’Eni che molto spesso apre la strada alla politica.



L’Eni non rischia di finire nel mirino del generale Haftar o comunque subire la guerra in atto?

Nessuna forza ha mai attaccato le infrastrutture dell’Eni perché questo infrastrutture producono il 45% del gas e del petrolio libico, forniscono gas e petrolio alla popolazione libica stessa. Sia per Haftar che per Sarraj attaccare l’Eni vorrebbe dire mettersi contro la popolazione. La metà del gas destinato ai libici è fornito dall’Eni, colpirla vorrebbe dire perdere il consenso della popolazione e in questo momento nessuno dei due lo farebbe mai.

L’Eni, ci sembra di capire dalle sue parole, ha un ruolo politico. L’Italia ha anche l’unica ambasciata al mondo ancora aperta in Libia, tutto questo non dovrebbe significare una nostra azione di primo piano nella crisi in atto?



L’Eni persegue il suo interesse che ovviamente è un interesse economico, ma per perseguire questo interesse deve essere supportata da una stabilità politica perlomeno nelle aree dove lavora. A partire dal 2011 ha svolto anche un ruolo di dialogo e di mediazione con gli attori locali, come le tribù e anche le milizie che controllano i territori dove si trovano le nostre infrastrutture per garantire la stabilità della produzione. L’Eni chiaramente nelle aree di suo interesse, non in tutta la Libia, ha svolto un importante ruolo di stabilizzatore politico e continua a farlo.

E il ruolo della nostra ambasciata a Tripoli?

L’ambasciata è l’unico punto di contatto occidentale in Libia ed è un importantissimo valore aggiunto che si affianca a quello dell’Eni nel dialogo, ma se questi due perni non vengono affiancati da un’azione politica lungimirante e di duraturo effetto politico è chiaro che questi due poli di vantaggio che l’Italia ha rimarranno fini a se stessi come accade oggi. È chiaro che l’Italia ha fatto alcuni sforzi diplomatici, come la conferenza di Palermo e anche attività bilaterali, ma è chiaro che la questione libica deve essere risolta da un’azione europea congiunta e prima ancora da una azione internazionale. Oggi mancano entrambe. L’Italia ha le sue colpe ma quelle più gravi sono quelle internazionali.

C’è stato un episodio significativo in questo senso: i funerali del presidente tunisino Essebsi a cui l’Italia ha mandato il nostro ministro degli esteri mentre per la Francia era presente il presidente Macron. Che ne pensa?

Che la politica italiana non sa cogliere le occasioni e si fa superare dall’attivismo francese. La Tunisia è importante, migliaia di migranti libici si stanno spostando a piedi verso di essa, dobbiamo aumentare la cooperazione con Tunisi. Questo episodio ci fa capire come siamo ingenui rispetto ad altri paesi.

Sembra che siamo più interessati al problema dei migranti che alla guerra in Libia, il nostro ambasciatore ha annunciato l’arrivo di altre 10 corvette militari per fermare e riportare in Libia i migranti.

La stabilizzazione della Libia è la precondizione fondamentale per risolvere il problema dei migranti e per risolvere il problema della criminalità organizzata intorno ai traffici di esseri umani. Noi fino a oggi abbiamo adottato una politica di sguardo corto, che guardava più alla pagliuzza nell’occhio che alla trave, abbiamo blindato le nostre coste. Si tratta certo di una risposta all’indifferenza europea, è chiaro però che la stabilizzazione della Libia è fondamentale. In questo momento nei centri di detenzione sulle coste libiche ci sono 6mila migranti. Con un’azione europea congiunta potrebbe essere facilmente risolto.

Eppure l’Europa non si muove, perché?

Macron ha convocato settimana scorsa un incontro dei ministri degli Interni europei. L’Italia non ha partecipato a questo vertice, tuttavia Macron ha riproposto ancora un meccanismo di solidarietà che non risolve il problema. Ci vuole una cooperazione ratificata e occorre rivedere il regolamento di Dublino. E poi bisogna pensare a un meccanismo in grado di sgominare le reti dei trafficanti. Se non guardiamo oltre le coste italiane e libiche non risolveremo il problema.

Non è che il pesante coinvolgimento in Libia di paesi come Arabia Saudita e Emirati Arabi spaventa l’Europa?

Europa e Stati Uniti hanno grandi interessi economici con le monarchie del Golfo. È chiaro che mettersi contro questi attori vorrebbe dire perdere affari importanti. Una parte della titubanza occidentale è senz’altro dovuta alla paura di perdere affari, anche noi abbiamo interessi importanti con l’Egitto. Che in Libia ci sia una guerra tra Turchia e Qatar contro sauditi ed Emirati è anche un freno all’intervento europeo.

(Paolo Vites)