Rappresentanti della Cirenaica e di Tripoli, le due parti che si contendono la Libia, sono riuniti al Cairo. Un nuovo incontro, dopo il summit tenutosi in Marocco, in vista della conferenza di Ginevra del 19 ottobre, che vedrà la partecipazione di diversi paesi. Come già detto in precedenza, in Libia sta iniziando un processo di riavvicinamento, pur con tutte le difficoltà del caso, dovute anche all’ingerenza di paesi come la Turchia. Come spiega in questa intervista Michela Mercuriesperta di Libia e docente di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata, “è un processo cominciato dal basso, grazie alle rivolte popolari sia a est che a ovest che hanno obbligato le due parti ad avviare un dialogo, a riprendere la produzione di petrolio e soprattutto a raggiungere un cessate il fuoco”.



Al Cairo i temi principali sono elezioni e processo costituzionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Quanta importanza reale rivestono questi colloqui rispetto alla situazione in Libia?

I colloqui intra-libici che si tengono al Cairo e che si sono svolti anche in altri paesi come il Marocco sono fondamentali per tenere aperto un canale di dialogo fra l’est e l’ovest della Libia e anche per cementare i  piccoli passi compiuti come il cessate il fuoco e la ripresa della produzione di petrolio. Colloqui importanti anche pensando alla prossima conferenza di Ginevra, che vedrà la partecipazione di diversi attori internazionali.



Quanto Haftar e Serraj sono realmente coinvolti? Soprattutto Haftar gioca un ruolo ancora determinante o non più, come sostengono alcuni osservatori?

Serraj ha dato formalmente le dimissioni, ma il possibile avvicendamento potrebbe scatenare malcontento, perché suscita l’appetito di molti che vorrebbero entrare nel nuovo consiglio presidenziale. Non sarà semplice, ci sono divergenze non solo fra est e ovest del paese, ma anche all’interno degli stessi due blocchi. A ovest si assiste allo scontro fra esponenti, come il primo ministro, vicini alla Fratellanza musulmana e personaggi più moderati. A est sussistono problemi su chi dovrebbe essere l’attore dominante fra il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, e Haftar.



Quindi Haftar è ancora una spina nel fianco?

Seppure ridimensionato, Haftar gode di un ruolo ancora significativo, perché ci sono attori come gli Emirati Arabi che lo sostengono. Lo scontro fra le forze più moderate e il generale è ancora aperto, anche perché Haftar continua ad avere una forza militare sul terreno.

È vero che il buon andamento attuale in Libia è dovuto principalmente alle iniziative prese dagli Stati Uniti? L’Europa e l’Italia sono state “tagliate fuori” dagli Usa per manifesta incapacità?

Da un lato, è vero che gli Usa sembrano essere rientrati in partita per evitare un rapporto strategico tra Russia e Turchia e soprattutto per evitare la presenza militare russa, ma è anche vero che questi accordi di pace hanno visto un interessamento piuttosto limitato degli americani.

Quindi come sono nati?

Sono frutto piuttosto di un dialogo intra-libico ed è questa la novità. Un dialogo che non nasce dall’alto o sulla spinta delle varie conferenze internazionali, ma dalla volontà dei libici di dialogare. Questo dialogo nasce dalla spinta del popolo, in seguito a manifestazioni di protesta sia a est che a ovest. Le rivolte popolari hanno spinto le due leadership a cercare un accordo per placare queste proteste, che mettevano in crisi la loro legittimità e che li hanno indotti, ad esempio, a riprendere la produzione di petrolio.

La Fratellanza musulmana e la Turchia rappresentano due ostacoli ancora ingombranti al raggiungimento di un autentico accordo fra i due fronti?

La Turchia ha investito molto nel conflitto libico, ma ha già avuto qualcosa in cambio: una base navale a Misurata e una base aerea. È probabile che la Turchia voglia mettere ancor più mano nell’ovest del paese dopo le dimissioni di Serraj, una persona molto vicina alla Fratellanza musulmana, mentre gli Usa vorrebbero una persona super partes, come il vicepremier libico. In questo senso la Turchia potrebbe essere un problema per i futuri accordi intra-libici.

Che quadro potrebbe realizzarsi in Libia se davvero si tenessero elezioni? Chi potrebbe vincerle?

Non è la prima volta che si parla di elezioni: ricordiamo Macron nel 2018 quando cercò di fare una road map che portasse il paese al voto entro l’anno. È difficile parlare di elezioni oggi, perché gli equilibri interni restano molto precari,  ed è difficile dire chi possa vincerle, perché tali equilibri da qui a marzo, data ritenuta auspicabile, potrebbero cambiare. I nomi sono molti, anche volti nuovi capaci di convogliare parte del consenso popolare. Mi riferisco al figlio di Gheddafi, che qualche settimana fa si è recato in gran segreto a Mosca per colloqui riservati. Potrebbe essere capace di convogliare parte del consenso, ma è tutto da vedere. La cosa importante è che si tengano elezioni in un clima quanto più coeso possibile.

A quel punto potrebbero cessare le ingerenze straniere, soprattutto quelle di Erdogan?

Qualunque sarà il risultato del voto, le ingerenze non finiranno mai. Paesi come la Russia, la Francia e la Turchia hanno inviato uomini e mezzi e si sono impossessati di luoghi strategici in Libia. Le ingerenze internazionali continueranno più o meno velatamente a condizionare gli equilibri interni.

L’Italia in tutto questo che ruolo sta giocando? È assente, come si dice da tempo, o sta recuperando un ruolo significativo?

In questo momento l’Italia ricopre un ruolo, autoinflittosi, assolutamente marginale, avendo lasciato campo libero alla Turchia. L’Italia deve in qualche modo riavvicinarsi ad Ankara, piaccia o meno: non a caso si è appena svolto un incontro fra Di Maio e il ministro degli Esteri turco. L’Italia oggi è marginalizzata e lo resterà. Se vuole tornare in partita, deve ingraziarsi Erdogan, non è una cosa piacevole, ma è quello che il nostro paese ha prodotto per colpa della sua assenza.

Il caso dei pescatori italiani fermati e detenuti in Libia: è una minaccia al nostro paese? Che sviluppi ritiene ci potranno essere?

È un vero e proprio ricatto da parte di Haftar. Il sequestro è avvenuto proprio il giorno dopo in cui Di Maio ha incontrato il presidente del parlamento di Tobruk, rifiutando l’incontro con Haftar. È un modo per dimostrare che il generale conta ancora e vuole un riconoscimento da parte dell’Italia. È anche la prova ulteriore della nostra marginalità.

In che senso?

Ci siamo rivolti alla mediazione degli Emirati, dei russi e degli egiziani, a conferma della nostra assenza nel teatro libico. La mediazione però sembra non aver portato alcun risultato, ma potrebbe esserci quasi un paradosso. La Turchia, che ci ha aiutato a liberare Silvia Romano, nella Libia orientale non ha interlocutori e potrebbe rivolgersi a Mosca, finendo che per ottenere la liberazione dei pescatori alla fine dovremo rivolgerci ancora a Erdogan.

(Paolo Vites)