“Ci sono tutti i presupposti per una nuova guerra civile” dice al Sussidiario Michela Mercuri, docente di storia contemporanea dei paesi mediterranei nell’Università di Macerata ed esperta di Libia. Tobruk, Misurata, Tripoli e molte altre città sono state investite da violente rivolte, ma il Paese continua a rimanere nel cono d’ombra dell’attenzione internazionale.



In Libia sono scoppiate rivolte in molte città. Hanno a che fare con il grano ucraino?

Tenderei ad escluderlo, per ora. Sono proteste dovute alla somma di povertà endemica, mancanza di elettricità, aumento dei prezzi e crisi alimentare latente. A tutto questo si aggiunge il problema che affligge di più i giovani, il senso di impotenza nei confronti del futuro. Manca un assetto istituzionale in grado di garantirlo.



Abbiamo dunque una crisi nella crisi, quella dell’instabilità complessiva della Libia che dura da tempo.

Si può aggiungere che la povertà non è dovuta soltanto alla carenza alimentare, ma anche al blocco dei terminal petroliferi, soprattutto in Cirenaica, causato dai disordini. La produzione di petrolio è scesa dal milione e 200mila barili al giorno di qualche mese fa ai 400mila barili odierni.

Come si evolverà la situazione?

Sarà difficile che le proteste si calmino nei prossimi giorni. Il quadro potrebbe peggiorare ulteriormente.

Qualcuno ha osservato che in piazza c’erano anche molte bandiere verdi. Cosa significa?



L’inevitabile ritorno sulla scena degli ex gheddafiani, che si stanno riorganizzando in molti centri del Fezzan, soprattutto Sebha, e poi a Tobruk, Bengasi e perfino Tripoli. Saif al-Islam Gheddafi non potrà candidarsi, perché su di lui pende un mandato d’arresto della Corte penale internazionale, ma non è più solo, ha alle spalle un partito politico.

Come sono i rapporti tra Abdelhamid Dbeibah, capo del governo di unità nazionale a Tripoli, e Fathi Bashaga, primo ministro libico sostenuto dalla camera dei rappresentanti di Tobruk?

Sono pessimi. Khalifa Haftar si sta rafforzando di nuovo, soprattutto a Bengasi e Tobruk, dove gode del consenso di una buona parte della popolazione, sfavorendo Bashaga, prediletto di Saleh (presidente del parlamento di Tobruk, ndr) e aiutando indirettamente la posizione di Dbeibah. A questo si aggiunge l’influenza della Russia, che pesa molto nell’Est libico, e alla quale Haftar è molto legato. Non solo. Ultimamente è molto attivo sulla scena Saddam Haftar, figlio di Kalifa, e potrebbe in futuro essere uno dei nuovi papabili: ha una sua milizia ed è molto attivo contro i gheddafiani.

I manifestanti che hanno assaltato il parlamento di Tobruk ne hanno chiesto lo scioglimento e nuove elezioni. Strada percorribile?

Mi pare francamente difficile, perché richiederebbe lo stato di emergenza e lo scioglimento concordato di entrambi i governi, ed è ostacolata dal potere che questi attori detengono grazie alle milizie. Saleh e il presidente dell’Alto consiglio di Stato Khaled al-Meshri dovrebbero vedersi a breve a Istanbul. Dopo questo incontro forse riusciremo a sapere qualcosa di più.

Perché non si trova una soluzione? Chi sta mediando?

Non sta mediando nessuno, la crisi è sempre più intra-libica. I poteri locali, siano essi istituzionali o armati, si stanno imponendo in un conflitto che fino a qualche mese fa era regionale e internazionale, ivi compresa la rivalità in terra libica tra Russia e Turchia.

Che cosa dobbiamo aspettarci?

Ci sono tutti i presupposti per una nuova guerra civile e l’esacerbarsi di violenze che potrebbero portare la Libia di nuovo sull’orlo del baratro.

Il ruolo dell’Unione Europea?

Praticamente nullo. Nessuno a Bruxelles e a Roma sembra pensare ad un approccio continuativo alla questione libica e a una politica di stabilizzazione del Paese. Siamo rivolti all’Ucraina ma la Libia si sta sgretolando. Pensiamo a cosa questo significa per lo scacchiere nordafricano, per la crisi alimentare e quella energetica.

Torniamo alla gestione del petrolio.

Molte milizie stanno bloccando importanti siti petroliferi, come El-Feel e Ras Lanuf, e vista la situazione interna la National Oil Corporation (Noc) ha bloccato la distribuzione dei proventi del petrolio.

Cosa bisognerebbe fare?

Innanzitutto mettere in sicurezza i pozzi e cercare di riavviare la produzione.

È un invito all’Italia perché agisca?

Il presidente della Noc Mustafa Sanallah è in ottimi rapporti con Descalzi, le due compagnie potrebbero agire di concerto. Il caos libico potrebbe avere conseguenze molto gravi  non soltanto sull’economia italiana ma anche su quella europea.

C’è una mano straniera dietro il calo delle forniture all’Italia?

Difficile dirlo. Però la Russia è molto vicina a Haftar e le sue milizie controllano una parte dei pozzi che si trovano nel Paese e anche nel Golfo della Sirte.

Stiamo trascurando la Libia pensando di averla rimpiazzata con l’Algeria?

Sarebbe un grave errore. L’Eni ha stipulato un contratto con la algerina Sonatrach per mantenere fisso il prezzo del gas fino al 2027, ma l’Algeria è profondamente instabile e il prezzo salirà. Algeri inoltre ha profondi rapporti con Mosca, in Africa è il primo acquirente di armi russe.

Cosa può dirci del gasdotto Green Stream?

Parte da Melitah, in Libia, e a arriva a Gela. Potrebbe portare in Italia il 12-13% del nostro fabbisogno di gas, quest’anno la fornitura è scesa al 4-5%, per l’instabilità della Libia. È evidente l’importanza di non lasciare la Libia al suo destino e di agire subito.

L’Italia da sola può farcela?

L’Italia da sola può fare ben poco per stabilizzare un quadro così complesso. Bisogna agire a livello europeo e internazionale con una politica non emergenziale. Perché l’Europa è così coesa sull’Ucraina ma non sulla Libia? Non dovrebbe essere il governo di Roma a spingere per primo in questa direzione?

Ieri Draghi era dal “dittatore” Erdogan. Bisogna parlare anche con gli autocrati?

Che ci piaccia o meno, direi proprio di sì. Del resto abbiamo fatto del nostro meglio per metterci in questa situazione: Serraj ci aveva chiesto delle armi che non gli abbiamo dato e così abbiamo regalato la Libia alla Turchia. Ora Istanbul ha basi strategiche in buona parte dell’Ovest libico e controlla i flussi migratori.

Italia e Turchia sono “partner, amici, alleati”, ha detto Draghi. Sono stati firmati nove accordi commerciali.

L’interscambio Italia-Turchia nel 2021 è stato di 20 mld di dollari, +27% rispetto al 2020, ma è verosimile che Draghi e Erdogan abbiano parlato anche di migranti e di gasdotti: il Tanap (Trans-Anatolian Pipeline Gas) si collega con il Tap, che dall’Azerbaijan porta il gas in Italia ed è la terza rotta dopo la Russia e l’Algeria. La Turchia è stata brava nel fare il proprio interesse nazionale e adesso è un nostro interlocutore non privilegiato ma necessario.

(Federico Ferraù)

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