Al tavolo verde del 25 settembre Enrico Letta ha puntato tutto sul rosso. O fermerà la slavina di destra con un pareggio risicato o la sua esperienza alla guida del Pd si chiuderà. Ed il nero sarà il colore vincente. Ad oggi il Paese pare pronto ad una svolta di destra. Non che i sondaggi ed i commentatori ci prendano. Spesso le urne sono andate in controtendenza e su questa speranza il Pd “lettino” fonda le proprie speranze.



Un moto di orgoglio di sinistra che premi l’alleanza stile Occhetto unita alla diserzione delle urne dell’elettorato moderato, ma non di destra, attratto, casomai, dalle sirene calendiane e spaventato da qualche inchiesta o da qualche video nostalgico del fascismo sparato in loop sui social, sono gli ingredienti per la magia. Una specie di incantesimo che permetterebbe a Letta di dire “non abbiamo perso” parafrasando l’emiliano Bersani all’indomani della “non vittoria” del 2013. Solo a queste condizioni Enrico avrebbe la voglia e l’obbligo di condurre il partito nella fase post elettorale, potendo intestarsi in Europa quello che ha promesso. Ovvero la sconfitta per “impotenza a governare” delle forze populiste antieuropee.



Diversamente il Pd ha già avviato la macchina per poter superare la fase del rientro dell’esule francese. Le correnti più mortificate, e molti dei parlamentari che non saranno rieletti, imputano a Letta di non aver avuto la capacità di chiudere la coalizione né con i centristi né con Conte. Alla fine non ci sarà la “maggioranza Draghi” alle urne (ha in coalizione gente che Draghi lo ha sempre contestato) né una coalizione stile Ulivo, mancando una solida gamba di centro.

È una coalizione tascabile di sinistra, in cui Pd, per mero calcolo elettorale sui resti delle liste che non dovessero fare il 3%, guadagnerà qualche seggio, ma perde la centralità della sua posizione politica. Da pilastro della governabilità e difensore di Draghi si ritrova a dover parlare di tutto meno che di economia ed energia, in un contesto in cui le posizioni di altre coalizioni, condivisibili o meno, sono molto nette. Proporre un’agenda dei diritti è una bella quanto disperata ricerca di temi condivisi, ma che non bucano la testa della gente. Il tema bollette ed inflazione, unito alla perenne questione del carico fiscale, rischiano di avere molto più appeal che il sacrosanto diritto alla cittadinanza di chi nasce e fa le scuole in Italia.



Enrico Letta lo sa bene. È uomo intelligente e sa che la sua carriera alla guida del Pd è al termine, e durerà ancora poco se l’incantesimo non riuscirà. Può ancora provare a motivare le truppe di sinistra, meno quelle più moderate, e sperare di fare il pieno a scapito di Conte. Lo schieramento dei big come Franceschini in Campania, e lo spazio dato ai candidati dei governatori in generale, dovrebbe portargli un buon afflusso di apparato e limitare i danni, sperando nell’inciampo catastrofico di Meloni o Berlusconi.

Se così non sarà, già si scalda Bonaccini, che ambisce al palcoscenico nazionale, spinto dai governatori democratici, pronti a lanciare una Opa ostile sulla gestione nazionale. Certo Letta avrà una buona quota di eletti nei gruppi per continuare ad avere un ruolo, ma le correnti hanno avuto spazio sufficiente per decidere i capigruppo tra loro anche in caso di sconfitta e potranno decidere senza i lettiani.

Resta da capire se Letta, che sulle tattiche elettorali si muove con minore acume di quanto non faccia sulle analisi di scenario, riuscirà a tenere il Pd oltre il 20% ed una coalizione sopra il 25%. Sarebbe già una medaglia spendibile e potrebbe dire di lasciare il partito meglio di come lo ha trovato. Il Pd con qualche punto in più di Renzi, che fece il 19, e la coalizione al 25, invece che al 23. Al Paese, che senza arcani interventi esterni finirà nelle mani di Giorgia Meloni, poco interesserebbe. Ma a Letta sì. Qualche voto in più di Matteo lo farebbe almeno sorridere quando incrocerà Renzi. “Stavolta ho perso meglio di te” penserà. Sono soddisfazioni.

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