L’ultimo Dpcm del presidente del Consiglio e i suoi 21 parametri scientifici hanno sollevato molti dubbi e tante polemiche da parte di molti governatori.

Ma a dire il vero, a leggere la satira pungente che viaggia veloce sulla rete, non hanno convinto neanche la gran parte della gente comune, che non riesce a spiegarsi come una regione che sembrava “spacciata” all’ultimo momento sia stata “graziata” e, viceversa, una che non si considerava poi così colpita dal virus fosse stata invece inserita in fascia “rossa”.



Il problema, secondo la mia modesta opinione, sta – da un lato – nell’approccio e quindi nel risultato dell’intervento. Cerchiamo, almeno noi, di essere chiari.

Il Governo ha scelto di orientare le sue decisioni sulla crisi pandemica sulla base di indicazioni scientifiche, provenienti dal Comitato tecnico scientifico. Ed in sé astrattamente non è un errore. Ci troviamo di fronte ad un problema sanitario, affrontiamolo con strumenti e quindi metodi scientificamente adeguati.



La validazione di un metodo scientifico, però, ed è un discorso che vale in assoluto, passa attraverso un’adeguata sperimentazione. Per essere ancora più rigorosi il metodo scientifico (detto anche, non a caso, metodo sperimentale) è la “modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile”. Secondo l’impostazione più diffusa, riferibile secondo i più al genio di Galileo Galilei, esso “consiste, da una parte, nella raccolta di dati empirici, sotto la guida delle ipotesi/teorie da vagliare; dall’altra, nell’analisi rigorosa, logico-razionale e, dove possibile, matematica di questi dati”. Si deve procedere, cioè, come enunciato per la prima volta da Galilei, associando le “sensate esperienze” alle “dimostrazioni necessarie”, ossia la sperimentazione alla matematica.

Non è dato sapere, però, quale sia il metodo avallato dal Cts e, quindi, adottato dal Governo. Perché in base al maggiore o minore peso dato ad uno piuttosto che ad un altro parametro il risultato può variare sensibilmente.

Ci viene chiesto, però, di fare atto di fede e affidarci completamente alle decisioni supreme. Il problema è che noi italiani, come molti altri popoli, siamo esseri pensanti e cerchiamo di capire. Non solo: è che quando non capiamo, difficilmente siamo in grado di adeguare i nostri comportamenti alle prescrizioni. E preferiamo spesso anche correre il rischio di violarle, assumendocene le conseguenze. A Napoli, per esempio, ci sono dei semafori, posizionati o lasciati lì dopo interventi urbanistici successivi, che nonostante la scarsa o nulla utilità pratica, continuano a funzionare. Ma, in genere, proprio perché non sono considerati utili, non vengono rispettati. Io dico che sono socialmente abrogati.

E poi la pletora di polemiche e di piccate dichiarazioni incrociate tra istituzioni centrali e regionali non aiuta a creare un clima sereno.

Non voglio in questa sede scendere nel merito delle decisioni, che saranno – in una situazione critica come quella che stiamo vivendo – anche le migliori possibili o almeno le meno peggiori. Anche se, va detto, una varietà così ampia di parametri utilizzati (addirittura 21) mi sembra altamente rischiosa. Perché basta che uno dei parametri sia non affidabile o raccolto male, ed il risultato finale sarà inevitabilmente sbagliato. Ma, trattandosi di un comitato di esperti, immagino che anche questo rischio sia stato calcolato. O almeno lo spero.

Il problema, e veniamo al secondo aspetto, è che l’effetto, il risultato di tutto questo lavoro non sembra rispondente alle aspettative e si presenta spesso incomprensibile. Lo dico da cittadino e non sono solo io a dirlo. Ma se qualche settimana fa il governatore della Campania De Luca minacciava di “chiudere tutto”, con mille casi Covid positivi, come è possibile che oggi con più di 4mila, la stessa regione sia considerata al livello di rischio “ giallo”, cioè il più basso dei tre previsti?

Sicuramente c’è qualcosa che non torna. Direbbe un famoso attore comico: la domanda sorge spontanea… E, questa volta, a dire il vero non mi sembra che a sbagliare sia stato De Luca.  Ma, ad ogni modo, qualcuno dovrebbe avere la creanza di farcelo capire in modo da accettarlo più serenamente. Se si fanno raccomandazioni e si impongono sacrifici, bisogna essere in grado di farli accettare e rispettare. E parlo di chiarezza ed autorevolezza, non di sanzioni.

Fare  un po’ di chiarezza sul fronte sanitario sarebbe davvero il minimo sindacale. Perché il vero problema forse non è neanche solo questo. E torna la questione dell’approccio.

La gravità della situazione sanitaria è sotto gli occhi di tutti e la gente ne è consapevole. Ma se fosse solo questione di salute basterebbero professori, medici ed ospedali che hanno dimostrato capacità e grande abnegazione. A loro va la nostra profonda gratitudine. La verità, invece, è che la questione è politica, totalmente, assolutamente, profondamente politica. Il problema è sociale, economico e produttivo e richiede scelte e prima ancora strategie che vanno ben oltre il dato scientifico. Altrimenti sarebbe bastato il Cts e non avremmo avuto bisogno del Governo. Quindi la politica deve tornare a fare la sua parte, assumendosene la responsabilità. Ed avendo anche il coraggio di dire le cose come stanno.

È una battaglia da fare tutti insieme, uniti, ma per creare unità non basta chiederla: ci vuole compassione, bisogna soffrire tutti insieme e sapere dove si vuole arrivare. Leggo, invece, che le misure di ristoro per le partite Iva, legate alla ristorazione, sarebbero limitate solo alle regioni di fascia rossa. Spero non sia così e che la politica lo chiarisca con forza. Altrimenti rischierebbe di passare il messaggio che il vero parametro decisivo (occulto) sia stato il numero 22.