Probabilmente non usciranno del tutto di scena e sicuramente rimarranno in futuro come gruppi sparsi, magari con qualche sussulto e qualche impennata di protesta. Ma che gli ex entusiasti protagonisti del M5s siano sul viale del tramonto si può facilmente constatare dal caos in cui sono caduti, con al loro interno più correnti (sedicenti si può dire) che nella vecchia Dc o in un qualsiasi altro partito della tanto vituperata prima repubblica.



La fierezza di avere vinto un referendum quasi demenziale, con il al taglio lineare dei parlamentari, senza un’adeguata riforma costituzionale, è durata poche ore. Gigi Di Maio, il ministro degli Esteri meno considerato in tutto il mondo, è passato dal sorriso all’affanno dopo aver letto con attenzione i rovinosi risultati alle regionali e le inevitabili proiezioni su scala nazionale del partito dei grillini. Inevitabile, ieri sera, la convocazione di due assemblee tra  deputati e senatori mentre ben sette senatori erano giù stati espulsi.



Intanto ieri un ultimo sasso è rotolato in testa al Movimento. In un dibattito tra il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, e il fondatore del Movimento 5 Stelle, il noto comico Beppe Grillo ha dichiarato di non credere nel Parlamento, nella democrazia rappresentativa e di guardare al sogno di tutti i “giacobini da strapazzo” (definizione di Anna Kuliscioff) che hanno sempre predicato in modo farneticante la democrazia diretta portando a una serie di infiniti drammi totalitari.

Grillo è stato talmente impegnato sui palcoscenici di avanspettacolo e a inventarsi comiche da strapazzo che non ha avuto proprio il tempo di  impegnarsi in qualche studio elementare di storia e politica. In fondo l’antiparlamentarismo di Grillo è la scoperta dell’acqua calda, che conoscevano bene i registi dell’attacco alla politica e al parlamentarismo cominciato con il teorema mediatico-giudiziario del 1992, che doveva poi aprire la strada a un’autentica svendita del Paese, economica e politica.



Quando si è compreso che la svolta contro la politica della prima repubblica non offriva buoni risultati, si è passati alle più meditate “persuasioni editoriali” di attacchi alla “casta” e nella stesso tempo a sorvolare sullo strapotere della finanza e sui giochi di prestigio delle banche, che hanno portato alla crisi del 2008. Era il grillismo la nuova arma da giocare nella battaglia politica italiana. Definire la visione politica di Grillo sarebbe un’impresa impossibile. Tuttavia sarebbe necessario fare una ricerca e compilare un’antologia accurata su quanti grandi analisti ed editorialisti hanno approvato ed elogiato la fondazione del “partito del vaffa”, che precede solo di qualche mese la crisi. Sarebbe uno spettacolo disarmante per il fior fiore della cultura italiana, per i “maestri” del nuovo giornalismo italiano.

Ieri, in una trasmissione televisiva, un sociologo quasi paragonava la democrazia greca di Pericle al futuro politico e sociale che ha in mente Beppe Grillo, con contorsioni mentali degne di un reparto psichiatrico. Non ci sono altre parole di commento.

Resta a questo punto solo da annotare il clima assembleare del caos grillino, con un panorama che assomiglia a una rissosa assemblea di condominio. In un movimento-partito che non ha mai avuto identità, c’è una geografia complicatissima. Andiamo con ordine. Ci sono i cosiddetti “governisti”, quelli che qualsiasi cosa accada vogliono stare al governo. In questo angolo ci sono pure i “dimaiani” che sono una sottocorrente dei “governisti”. Quindi ci sono gli “autonomi”, governisti ma senza accasamento a presunti leader. Poi ancora gli “anti-Rousseau”, intesi come nemici della piattaforma più che contestatori del filosofo. Quindi i “fichiani”, cioè i fedeli al presidente della Camera, Roberto Fico. E non finisce qui: si parla anche di una mozione “Parole guerriere”. Infine i “puristi”, tra cui Davide Casaleggio e il “Che Guevara” della Garbatella, Alessandro Di Battista.

Se al posto di svolgersi alla Camera e al Senato di Roma, queste assemblee si svolgessero a Milano sarebbero impietosamente definite “bande dell’Ortica”, con “un palo sguercio” che alla fine non vede arrivare i carabinieri i quali arrestano tutti quanti. Chi, in un’ipotetica commedia, meglio di Vito Crimi, che ha sostituito Di Maio al vertice del Movimento da alcuni mesi, potrebbe interpretare meglio il palo dell’Ortica?

Il problema, naturalmente, non è tanto l’autoimplosione possibile, magari con scissioni improvvise del Movimento, ma è quello che può capitare al governo. Se è vero che tra la riduzione dei parlamentari e quello che rimane della legislatura può trionfare il puro immobilismo, magari con sbandamenti momentanei, non c’è dubbio che questo governo adesso si regge su un Pd che è alleato di minoranza con una massa indistinta di antiparlamentaristi e di confusionari che non riescono neppure a trovare un assetto per il futuro del loro movimento.

E occorre ricordare che i prossimi due anni saranno decisivi per il futuro economico e istituzionale del Paese. Sia per il rilancio economico e sociale, sia per i rapporti con l’Unione Europea.

Ieri sera ci sono stati i silenzi programmati di fine assemblea, ma tutti sanno che sono emersi tutti i veleni di questi giorni: un intreccio di veti, le accuse più o meno velate, i personalismi esasperati. Si è discusso sulla possibilità di un capo politico unico da votare subito in rete, una leadership collegiale con un percorso che porterà a un vero e proprio congresso. La sensazione è che il grande equivoco stia finendo, con ripercussioni gravi sul Parlamento e sul Paese.

Quasi patetico l’appello del presidente della Camera, Roberto Fico: “Basta con le battaglie intestine, dobbiamo avere una collegialità maggiore, perché alcuni problemi ancora vivi nel M5s derivano da verticismo troppo spinto. Serve una collegialità per trovare sintesi, è il sale della democrazia ma anche una soluzione per una maggiore maturità”.

Parole di circostanza che nascondono solo un fallimento. La politica non c’è più. Tutti hanno festeggiato vittorie inesistenti e intanto il caos dilaga ovunque: dal partito di maggioranza relativa in Parlamento, che alcuni stimano ormai al di sotto del 10 per cento e sembra destinato alla scomparsa dalla scena politica, fino al governo di cui ha il presidente del Consiglio e il partito, il Pd, che dovrebbe garantire la stabilità del Paese.

L’aggiunta finale e triste a questo pandemonio è che ormai, scomparsa la politica, non esiste neppure un’alternativa credibile.