Due punti fermi in una nebbia di voci e di ipotesi. Il primo: il momento del redde rationem in casa 5 Stelle è arrivato. Il secondo: la soluzione non sarà istantanea. Un po’ per via dello statuto barocco che lo stesso Giuseppe Conte ha scritto e che demanda l’eventuale espulsione ai probiviri, un po’ perché lo stesso Conte è considerato (da Grillo, in primis) il fuoriclasse dei penultimatum.



Il tutto a patto che non sia Luigi Di Maio a decidere di strappare infilando la porta, provocando una scissione dolorosissima, nella quale – secondo molti osservatori – a seguirlo potrebbero essere sino a 60 degli attuali quasi 230 parlamentari pentastellati. Del resto, i veri leader non si fanno cacciare, se ne vanno un attimo prima, vedi Fini e il suo celebre “Che fai, mi cacci?” rivolto nel 2010 a Berlusconi.



Di certo le elezioni amministrative hanno avuto l’effetto di un terremoto in casa M5s, facendo esplodere tensioni e rancori accumulati da tempo. Il Movimento sui territori è praticamente sparito, non è arrivato alla doppia cifra neppure in roccaforti storiche come Palermo. Il 12-13% ancora assegnato dai sondaggi su scala nazionale pare una valutazione decisamente ottimistica del consenso. All’interno si è scatenato il panico, perché la crisi di consenso unita al taglio dei parlamentari (imposto dagli stessi grillini) rischia di falcidiare i posti nel prossimo parlamento. A questo si aggiunge la regola dei due mandati, che farebbe fuori gran parte dei capi storici.



Il groviglio di tensioni ha trovato il suo sfogo sul terreno più insidioso, la politica estera. Luigi Di Maio è il ministro degli Esteri che non smette di ribadire la linea filoatlantista e filoeuropeista del governo Draghi, linea che però crea enormi mal di pancia nell’anima più pacifista del movimento, quella accusata di eccessivo appeasement con le ragioni di Mosca, anche dopo la cacciata del putinista Petrocelli.

Attaccare Di Maio significa, senza tanti giri di parole, attaccare Draghi. E rischiare quindi la crisi di governo, trattandosi di questione centrale per Palazzo Chigi. Martedì e mercoledì il premier riferirà sull’Ucraina in parlamento, alla vigilia del vertice europeo. Se M5s non troverà un accordo per sostenere una mozione condivisa con il resto della maggioranza, non si può escludere che Draghi infili a tutta velocità la strada del Quirinale. Si è già visto a fine marzo, sempre per le resistenze di Conte sulla questione della armi a Kiev.

Da Palazzo Chigi trapela preoccupazione, quelle di Mattarella si possono immaginare non dissimili, al Nazareno sono disperati, perché il “campo largo” con un Conte che frena oltremisura sul sostegno all’Ucraina non si può fare. Persino Lega e Forza Italia sono allarmate per la sorte del governo. Quel che è certo è che una ricomposizione fra i 5 Stelle diventa ogni ora più improbabile, anche se la frattura potrebbe non essere immediata. Definire Di Maio un corpo estraneo era sino a qualche settimana fa impensabile. Ora è irrecuperabile. E il Big Bang grillino rischia di ridisegnare radicalmente il panorama politico italiano.

La prima domanda cui cercare risposta è cosa farà Di Maio. E la pista più accreditata parte dal colloquio di New York con Beppe Sala. Ipotesi (per ora vaga) di un polo riformista, europeista e ambientalista. Questo sì sarebbe l’alleato ideale del Pd. Ma i tempi per metterlo in piedi sono strettissimi. Conte, in questo scenario, andrebbe per la sua strada, in solitaria, alla ricerca del consenso perduto con una piattaforma sempre più estremista. Ma prima di arrivarci bisogna vedere cosa ne pensano i big, da Beppe Grillo (atteso in settimana a Roma) e Roberto Fico. Mercoledì sera l’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari si preannuncia infuocata.

Oggi Di Maio sarà regolarmente a Lussemburgo per il consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea. Sembra intenzionato a dare l’impressione che il suo lavoro alla Farnesina continua senza scossoni. Sventata l’ipotesi dell’espulsione immediata, circolata per qualche ora, tocca al presidente pentastellato decidere come procedere. Il tempo gioca a favore del ministro degli Esteri. E il gioco del cerino fra lui e Conte, ormai due galli nello stesso pollaio, non può durare a lungo. Ne va della credibilità del governo sul piano internazionale.

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