Nel giro di pochi giorni due attacchi suicidi a opera di kamikaze hanno insanguinato il Mali. Nel primo caso un’autobomba ha preso di mira le forze armate francesi nel centro del Mali, ferendo alcuni soldati. Il secondo episodio ha visto l’esplosione di una seconda autobomba contro la base della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, ferendo 15 militari. Due episodi che si succedono dopo che il presidente francese Macron lo scorso 3 giugno ha annunciato il ritiro della missione francese Barkhane, impegnata da anni con 5mila soldati nella pacificazione del Mali, missione da tutti definita fallimentare. Come ci ha detto Mauro Indelicato, giornalista di InsideOver esperto di geopolitica e problemi migratori, “i francesi non sono riusciti a stabilizzare il Mali, i gruppi jihadisti sono aumentati sempre di più e appaiono oggi profondamente radicati. Ma la colpa è anche del Mali, che nel giro degli ultimi otto mesi ha subìto due colpi di stato, totalmente incapace di autogovernarsi”.
Questa serie di attentati hanno a che vedere in qualche modo con l’annunciato ritiro delle truppe francesi?
L’Operazione Barkhane non ha ridato stabilità né al Mali né tantomeno alle nazioni circostanti, per cui l’area del Sahel continua a essere molto instabile, anzi più di quanto fosse all’inizio dell’operazione, che risale al 2014 e che è successiva a un’altra iniziata nel 2012 per contrastare l’avanzata jihadista. Si tratta di un’operazione che lascia un paese ancora destabilizzato e una regione in balia delle forze jihadiste.
Quanto in balia?
Bisogna distinguere. Non è solo un’avanzata militare, ma anche e soprattutto sociale e politica. Parlando con alcuni rappresentanti di Ong in Niger e nel Mali, tutti dicono la stessa cosa: gli jihadisti spesso sono gli unici datori di lavoro per chi abita nel nord del Mali e nel nord del Niger. Questo fa capire come siano profondamente radicati nel territorio.
L’operazione francese non è riuscita per colpa loro?
Non è solo colpa della Francia. Ha messo i suoi uomini a disposizione, ma il Mali non ha mai trovato stabilità, soltanto negli ultimi otto mesi abbiamo avuto due colpi di Stato e questo vuol dire che al suo interno, dal punto di vista politico e militare, non hanno lavorato per dare la giusta stabilità al paese. Le autobombe che hai citato rientrano in questo contesto di instabilità perenne che la Francia non è riuscita a risolvere, ma anche le stesse autorità maliane sono responsabili.
Rimarrà comunque una presenza militare cui partecipa anche l’Italia: la missione Takuba.
Il ritiro non è totale. La Francia interrompe la propria operazione unilaterale, ma è tra i primi paesi coinvolti nell’altra operazione di cui fa parte anche l’Italia. In buona sostanza, la Francia ha detto: non vogliamo più fare questo lavoro da soli, è un lavoro che va condotto in ambito europeo comunitario, perché non c’è più la forza militare e politica per proseguire da soli.
C’è il pericolo che si instauri uno stato islamico?
Il pericolo c’è, però rispetto alla Siria ci sono condizioni diverse.
Quali?
In primo luogo, il Mali ha avuto già dei piccoli califfati nel 2012, all’indomani del primo colpo di Stato. Le popolazioni del nord hanno già vissuto quell’esperienza e difficilmente accetteranno un altro califfato. C’è poi un discorso territoriale: parliamo di nazioni molto vaste, difficili da controllare per i governi, ma anche per eventuali forze di un autoproclamato stato islamico. Sono condizioni che rendono difficile la formazione di un califfato.
Quanto questa situazione si ripercuote sulla Libia?
Parecchio. Il Mali è un paese dell’area del Sahel e nel Sahel transita il 90% dei migranti che poi raggiunge la Libia. Un Mali destabilizzato vuol dire un Sahel destabilizzato e migliori condizioni per i trafficanti nel gestire il loro commercio di esseri umani. In secondo luogo, parliamo di confini inesistenti, tracciati sulle cartine, ma lì c’è il deserto. Tutto quello che succede in Mali ha per forza di cose ripercussioni sui paesi vicini, quindi anche sulla Libia. Ricordo peraltro che in questo momento nel sud della Libia sono in atto scontri militari, le milizie del generale Haftar stanno combattendo i gruppi terroristi. In qualche modo le crisi si chiamano tra loro.
Cosa cambia per la Libia dopo la conferenza di Berlino? Chi guadagna posizioni e chi ne perde tra Italia, Turchia, Francia e Russia?
È stato un pareggio, nessuno ha vinto e nessuno ha perso. Perché se i mercenari resteranno, e attualmente nulla fa pensare a una immediata evacuazione, niente cambierà. La conferenza ha rimarcato l’importanza dell’evacuazione, ma sotto il profilo pratico nessun paese ha intenzione di farlo. I russi non lo faranno prima dei turchi e viceversa. Tutto rischia di rimanere in stallo e a perderci è solo la Libia.
(Paolo Vites)
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