D’accordo, il governo di Giorgia Meloni ha avuto poco più di un mese per preparare la legge di bilancio. D’accordo, un po’ di inesperienza è da mettere nel conto per un partito, quello della premier, che in Parlamento ha fatto sempre e solo l’opposizione. Ma quella che sta andando in scena negli ultimi giorni assomiglia più a una fiera dell’improvvisazione che alla maratona a tappe forzate per arrivare ad approvare la manovra entro fine anno. L’ultimo scivolone, emblematico del caos imperante, è l’approvazione – per sbaglio – di un emendamento targato Pd che regala quasi mezzo miliardo di euro ai Comuni. Il presentatore dell’emendamento è uno che di amministrazioni locali se ne intende, cioè Andrea Gnassi, per 10 anni sindaco di Rimini. L’emendamento 146.020 destina 450 milioni all’Anci. Sarebbe un toccasana per tanti municipi rimasti senza soldi. Peccato che non ci siano nemmeno i fondi per finanziare l’emendamento. L’errore sarà corretto, ma ciò significa perdere altro tempo riportando il testo in commissione Bilancio, presieduta – non sempre con polso fermo – dall’azzurro Giuseppe Mangialavori. E su un altro forzista, Roberto Pella, relatore della legge, grava il peso di un pantano dal quale la manovra non riesce a uscire.
Di svarioni se ne sono visti parecchi in questi giorni, dalla retromarcia sul Pos fino all’incredibile inserimento di una norma penale nella legge di bilancio, ovvero quella che prevedeva lo scudo ai reati fiscali. Quando al Quirinale se ne sono accorti, sono intervenuti, inorriditi, per fare cassare la norma. E quando il corto circuito è diventato di pubblico dominio è cominciato lo scaricabarile tra i partiti della maggioranza. Forza Italia è stata accusata per prima: sembrava che lo scudo fosse stato voluto dallo stesso Silvio Berlusconi. Ma il viceministro della Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto, ha respinto le accuse parlando di “incontri con Maurizio Leo”, viceministro meloniano alle Finanze. “Era il ministero dell’Economia ad avere l’esigenza di recuperare fondi”, ha detto ieri Sisto a Repubblica.
Pare ci sia la mano di Leo, uno che non ama le mediazioni e le trattative, anche dietro il provvedimento in base al quale le plusvalenze da criptovalute, con l’anno nuovo, godranno di una tassazione di favore: 14% anziché il 26%, finora applicato dall’Agenzia delle entrate, che equiparava i ricavi dalle speculazioni sulla moneta virtuale agli interessi sui conti correnti bancari. Il frutto delle scorribande speculative trattato meglio dei risparmi liquidi lasciati sui conti da chi non se la sente nemmeno di comprare Bot viste le turbolenze finanziarie di questi mesi.
Il rischio dell’ostruzionismo, che avrebbe condotto dritto all’esercizio provvisorio, ha indotto Giorgia Meloni a far ritirare il colpo di spugna sugli evasori. Che però sembra essere stato soltanto accantonato, nonostante la contrarierà di Lega (in particolare del ministro Giorgetti) e di Fratelli d’Italia: il partito di Berlusconi dice infatti di avere un impegno della premier a ripresentare la norma sotto forma di decreto entro la fine dell’anno. Insomma, la navigazione della manovra procede a vista. E l’approdo appare ancora molto lontano.
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