La paralisi tanto temuta non c’è stata. Il debutto dell’obbligo di green pass nei luoghi di lavoro faceva presagire un venerdì nero, in realtà non si sono verificate criticità eccessive: cortei in tutto il Paese e presìdi davanti a porti e fabbriche, ma senza tensioni, violenze e contrapposizioni forti. Anche perché alla vigilia dell’entrata in vigore del decreto si era registrato un boom di certificati vaccinali scaricati: ben 860.094 in 24 ore, mai così numerosi da tre mesi. Ma la domanda resta: cosa succederà da lunedì? Dovessero verificarsi nuovi blocchi? Che cosa rischia il sistema delle Pmi italiane?



Ne abbiamo parlato con Maurizio Casasco presidente di Confapi e presidente della Confederazione europea delle Pmi, che dice: “Non avere le materie prima anche se il portafoglio ordini è buono e non avere gli autisti che trasportano le merci non fa certo piacere”.

Ieri si è vissuto un passaggio delicato, ma tutto sommato è passato senza lasciare cicatrici. Che cosa potrebbe succedere da domani?



Gli imprenditori, soprattutto quelli delle Pmi, hanno a cuore la salute dei propri dipendenti, che spesso conoscono per nome e cognome, e l’attività della propria azienda. Sono due esigenze che cercheremo sempre di soddisfare con la massima responsabilità.

In caso però di nuovi blocchi o rallentamenti delle attività portuali e di trasporto che cosa rischiano le Pmi italiane?

Innanzitutto, rischia tutto il sistema-Italia, perché in questo caso le navi andrebbero nei porti di Rotterdam o in quelli dei paesi della ex Jugoslavia. E sappiamo bene come, persa una strada, poi sia molto difficile ritrovarla. Mi auguro che tutti assumano una posizione responsabile, sotto il profilo economico, sociale e sanitario. Perché se venissero a mancare gli approvvigionamenti, l’esito non sarebbe che quello di una paralisi del paese.



Sull’obbligo del green pass, lei come la vede?

Quando si emana un decreto, bisogna avere ben presente la sua messa a terra, tenendo conto di quella che è la realtà e le esigenze legate a questa situazione. Fin dall’inizio Confapi è stata la prima a dichiararsi favorevole alle vaccinazioni in azienda. Ma il green pass è un ibrido, un passaggio – ci si augura – verso una vaccinazione la più completa possibile.

In che senso è un ibrido?

Il green pass prevede tre gambe: chi è vaccinato, chi ha gli anticorpi a seguito della malattia contratta e chi ha fatto il tampone. I primi due casi portano l’immunità, con la quasi certezza di un bassissimo rischio di contagio e una bassissima contagiosità, mentre il tampone non può reggere il paragone, perché ha evidenza fra i 3 e gli 8 giorni. In pratica, un soggetto può essere infettante fino all’ottavo giorno pur risultando negativo al tampone, creando così un possibile focolaio in azienda. E in caso di contagio su chi ricade la responsabilità. Sul datore di lavoro? Sul tampone? Sul legislatore?

Quindi?

Il tampone, che a differenza della vaccinazione e degli anticorpi prodotti dalla guarigione non salva la vita o dalle complicazioni più gravi e letali, dovrebbe essere ad adiuvandum, come screening post vaccinazione. Sull’obbligatorietà, poi, nessuno può esservi costretto, ma se si va a lavorare bisogna aver fatto il vaccino, perché – e lo dico da medico – la corsa è sulle varianti. L’equazione è: somministrare più vaccini, così meno contagi si hanno e meno varianti insorgeranno. Senza dimenticare il nodo della privacy.

Dove sta il problema?

Non dobbiamo esagerare. Oggi il datore di lavoro non può sapere se il lavoratore è vaccinato anche se ha il consenso del lavoratore stesso. E’ una follia: è una violazione della libertà al contrario. La privacy può essere derogata per motivi di interesse superiore, come prevede anche il decreto Capienze nel caso del contrasto all’evasione fiscale. Perché no per la lotta alla pandemia? Perché costringere ogni giorno i lavoratori a fare la fila per controllare il green pass prima di poter entrare in azienda? Sarebbe una bella semplificazione. Detto tutto questo, però, dobbiamo essere consapevoli che sul tavolo non c’è solo il problema del green pass, ma una serie di problemi molto seri, a partire dall’aumento dei prezzi e soprattutto dalle carenze di molte materie prime.

I costi di gran parte delle materie prime sono raddoppiati in un anno e nel contempo sta diventando sempre più difficile reperirle sul mercato. Che impatto dobbiamo aspettarci su produzione e occupazione?

Siamo stati i primi, a luglio 2020, a lanciare l’allarme, quando una grande azienda dell’acciaio aveva richiesto un aumento del 10% del prezzo addirittura sui contratti già in essere fino a marzo. Tenga presente che sull’acciaio la situazione delle Pmi italiane era già penalizzata dal caso Ilva, una vicenda in cui sono stati commessi molti errori gravissimi, tali per cui oggi lo stabilimento di Taranto, che produceva fino a 12 milioni di tonnellate d’acciaio, oggi si ferma solo a 3.

Dopo quel campanello d’allarme che cosa è successo?

La Cina, che assorbe il 50% della produzione e del consumo di acciaio, ha imposto i dazi, cioè le quote, sull’export, così come sul rottame ferroso. Dimostrando un alto livello di ottusità, l’Europa, e l’Italia ha sbagliato ad avallarne la scelta, a fronte di una carenza di approvvigionamento, ha rinnovato quest’anno per tre anni le quote all’import, lasciando libero il rottame ferroso, che viene spesso dirottato verso la Turchia. Questo doppio blocco, uno dell’export cinese e l’altro dell’import europeo, non poteva che far schizzare all’insù le quotazioni dell’acciaio e rendere sempre più difficoltoso il suo reperimento sul mercato. Non solo: tutto ciò va a sommarsi a costi dei container che sono praticamente quadruplicati.

Questo intreccio perverso che cosa sta comportando per l’industria?

Le nostre imprese oggi devono pagare il 25% sulle quote trimestrali raggiunte. Ad agosto è stata esaurita la terza quota trimestrale e dalla metà del mese le aziende, per non pagare quel 25%, hanno aspettato la trimestrale successiva. Risultato? Navi ferme nei porti di Marghera e di Ravenna al costo di 40mila euro al giorno, in attesa appunto del 1° ottobre. Così tra metà agosto e fine settembre si è verificato un blocco degli arrivi. A questo si è aggiunto il problema dei mezzi di trasporto, perché in tutta Italia mancano i camionisti.

Un ingorgo che verrà smaltito quando?

Credo entro fine novembre. Ma ciò significherà che entro quella data avremo subito raggiunto le quote della quarta trimestrale. E il problema si ripresenterà, con il rischio di mettere la gente in cassa integrazione pur in presenza di un buon portafoglio ordini, che però non saremo in grado di soddisfare.

Che contromisure andrebbero prese per contrastare questi fenomeni e aiutare le Pmi?

Bisognerebbe, in primo luogo, almeno per un anno liberalizzare le quote, come è stato fatto qualche giorno fa per l’alluminio. Oppure far sì che all’interno di ogni trimestrale le quote fossero distribuite, per osmosi e per compensazione fra i diversi paesi, a livello europeo e non più nazionale. E le dirò di più: già si vede all’orizzonte una minaccia serissima.

Quale?

Noi abbiamo una forte industria di trasformazione, ma già oggi la Cina si prepara a fare una grande concorrenza sui prodotti finiti proprio all’Italia, che è in asfissia di materie prime. Infatti la carenza di materie prime è problema ben peggiore di quello dei rincari.

Dopo un anno e mezzo di pandemia, qual è lo stato di salute delle piccole e medie imprese private italiane?

La crisi provocata dalla pandemia si fa indubbiamente sentire, perché abbiamo ancora problemi legati alla patrimonializzazione e alla liquidità. E’ una vergogna nazionale che tra soggetti privati i pagamenti avvengano a 120, 150 se non addirittura 180 giorni. Se i pagamenti fossero saldati entro 60 giorni, come avviene in Francia, dove chi sfora paga delle penali, le imprese risolverebbero il 60% dei loro problemi di liquidità. Invece così le piccole imprese fanno da bancomat alle grandi.

Investimenti, occupazione, ordini: ci sono segnali positivi?

A differenza delle grandi industrie che assemblano, noi facciamo produzione, il lavoro c’è. Quindi ci teniamo stretti i nostri dipendenti, anche perché serve tempo per formarli. Nel tessile, per esempio, formare un tintore richiede 4 anni di formazione in azienda. Non abbiamo problemi di licenziamenti o disoccupazione. C’è piuttosto carenza di operai specializzati.

Come vede la chiusura del 2021 e cosa si aspetta dal 2022?

Se teniamo sotto controllo la pandemia e le varianti del Covid, allo stato attuale dei problemi internazionali di cui abbiamo parlato, senza dimenticare l’aumento dei prezzi dell’energia, l’inflazione che può correre, il potere d’acquisto delle famiglie che può calare e un cuneo fiscale troppo elevato che il governo dovrebbe cercare di abbassare, il 2022 lo vedo abbastanza bene, anche se non entusiastico. Quanto alla crescita, più che un rimbalzone brusco, preferirei avere tassi di crescita graduali, costanti e ben spalmati sul 2021, 2022 e 2023. Se non adeguatamente governato, non basta solo la spinta del Pnrr.

(Marco Biscella)

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