La difficile fase degli approvvigionamenti di materie prime, semilavorati e microchip che stanno attraversando numerose industrie italiane, se non subirà un rapido miglioramento nelle prossime settimane, rischia di mettere a repentaglio la crescita del 6% del Pil ipotizzata per quest’anno dal Governo nella Nadef, cui anche il sistema produttivo dell’Italia meridionale stava contribuendo. È inutile nasconderselo, o sottovalutare il rischio ormai incombente.



La ridotta produzione di autoveicoli, solo per fare un esempio – che sta interessando alcuni grandi plant del Mezzogiorno come quelli di S. Nicola di Melfi (PZ) e Atessa (CH) ove si assemblano le maggiori quantità di auto e di veicoli commerciali leggeri del Paese – con gli effetti a catena sull’occupazione nei singoli stabilimenti, sulle loro supply chain e sull’anello terminale della filiera costituita dai concessionari, sta già incidendo in misura significativa sull’aumento del Pil.



Ma il comparto dell’automotive non è l’unico in grave sofferenza come evidenziano le notizie di stampa delle ultime settimane, dal momento che molti altri comparti che lavorano materie prime, semilavorati e componentistica di importazione stanno subendo scarsezza o lentezza di forniture, e in ogni caso un brusco incremento dei loro costi.

A ciò si aggiunga l’aumento, al pari degli altri, del prezzo dell’energia che, unito ai rallentamenti o alle sospensioni delle forniture di beni produttivi primari, induce molti osservatori a parlare di una tempesta perfetta che si starebbe abbattendo non solo sull’economia italiana, ma anche su quella di altri Paesi trainanti dell’economia mondiale.



Ora, auspicando (con un esercizio di ottimismo) un miglioramento della situazione generale, a nostro avviso ci si dovrebbe interrogare a livello di Unione europea sulla necessità e anzi sull’urgenza di una strategia comunitaria che, sia pure in prospettiva, cerchi se non di evitare almeno di attenuare la pesantezza e il ripetersi di simili situazioni.

Il discorso al riguardo sarebbe inevitabilmente molto ampio, e non è certo questa la sede e l’occasione per impostarlo nelle sue linee di fondo; e tuttavia ci si dovrebbe chiedere se non si sia puntato troppo a lungo nell’Europa comunitaria a delegare ad aree lontane dal nostro continente determinate produzioni che, in realtà, si stanno rivelando sempre più insostituibili, e la cui attuale penuria potrebbe prolungarsi mettendo a dura prova la tenuta di interi segmenti dell’industria europea.

Certo, lo sappiamo, nessuno poteva prevedere il diffondersi della pandemia da Covid-19 che, a sua volta, ha posto in evidenza come l’industria farmaceutica europea – pur molto avanzata sotto tanti profili tecnologici e in numerose tipologie di farmaci – si sia fatta poi trovare disarmata proprio sul fronte del vaccino anti-Covid. Allora, non è giunto il momento di incominciare a riflettere sulla necessità di tornare a produrre in Europa beni oggi di importazione, ammesso peraltro che sia ancora possibile acquistare a prezzi convenienti le materie prime necessarie a produrli, oggi in gran parte monopolizzate da alcune grandi economie asiatiche?

Un’Unione europea che sta ragionando sulla necessità di apparati di difesa comune, aggiuntivi a quella della Nato, può non trasferire sul terreno delle sue scelte di politica industriale una simile esigenza? Come in materia di transizione energetica si stabiliscono cronoprogrammi con obiettivi da raggiungersi in tempi così ristretti da preoccupare non pochi comparti delle industrie nazionali, e di quella italiana in particolare, così ad esempio in materia di produzione di microchip bisogna sempre dipendere dalle importazioni dall’Estremo Oriente?

Con questo non vogliamo in alcun modo indulgere a forme del tutto antistoriche di autarchia produttiva a livello europeo, stante peraltro la stretta interconnessione ormai più che ventennale delle economie mondiali, quanto piuttosto porre in evidenza la necessità che a Bruxelles si studino meccanismi di promozione produttiva che, sempre in logiche di mercato, pongano a disposizione dell’industria comunitaria almeno una parte dei beni e servizi di cui essa ha bisogno, senza dover subire i rallentamenti e i disagi di queste settimane. Il tema è molto complesso, lo sappiamo, ma non crediamo che si possa eludere fingendo di credere che i problemi emersi di recente siano destinati a risolversi in poco tempo.

La proposta di acquisti europei di gas e di suoi stoccaggi strategici comuni, se realizzata, sembrerebbe andare nella direzione prima indicata, così come andrebbe nella stessa direzione un fortissimo incremento di produzione di energia da fonti rinnovabili – interscambiabile poi su reti di trasmissione internazionali – che, soprattutto in Italia, deve procedere molto più speditamente di quanto non sia avvenuto sinora, se si vorranno rispettare gli obiettivi indicati al 2030 di riduzione della CO2 e della maggiore incidenza delle energie da fonti rinnovabili sul totale della generazione elettrica nazionale.

Così come andrebbe nella stessa direzione il riavvio dell’esplorazione e coltivazione dei possibili (e anzi probabili) giacimenti di gas al largo del nostro Paese, congelate da tempo per le fin troppo note resistenze ambientaliste, e che solo ora al Mite stanno sbloccando grazie alla determinazione del Ministro Cingolani.

Anche l’impulso dell’Ue alla creazione di grandi giga factory per la motorizzazione elettrica del presente, e sempre più del futuro, muove nella giusta direzione.

Insomma l’Unione europea, o almeno i suoi Paesi guida, possono (e dovranno) reagire unitariamente a una situazione che, pur non essendo stata prevista in alcun modo, rischia di infliggere una mazzata strutturale al suo sistema produttivo a tutto vantaggio dei suoi temibili competitor statunitensi e cinesi.

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