Si dice che la paura fa 90, e la temperatura dei prezzi delle materie prime quest’estate ha registrato aumenti superiori del 30% al mese per tre mesi: “ad agosto 2021 – come sottolinea l’ultima Elaborazione flash di Confartigianato – le quotazioni delle commodities non energetiche salgono del 31,9%, decelerando rispetto al +36,1% di luglio e al +35,9% di giugno. Il trend è simile per i prezzi delle materie prime alimentari (+31,9%) e per quelli delle materie prime non alimentari (+31,8%)”. E’ vero che la tendenza è in lieve calo, ma questi numeri, proprio per il loro valore cumulativo, sono più che sufficienti per mettere in ansia le economie di mezzo mondo, Italia in testa.



Perché noi dobbiamo preoccuparci di più? Semplice: il nostro paese – la seconda economia dell’Ue, dopo la Germania, per produzione manifatturiera – è particolarmente esposto all’aumento dei prezzi delle materie prime, vista la nostra elevata dipendenza dall’estero proprio sulle commodities: “nella media dell’ultimo triennio – ricorda ancora l’Elaborazione flash – il saldo annuo del commercio con l’estero dell’Italia per le principali materie prime estrattive, industriali ed energetiche è negativo per 56,6 miliardi di euro, mentre per i restanti prodotti manifatturieri si registra un surplus di 119,2 miliardi di euro”. A ricordare, ancor più plasticamente e drammaticamente, quanto sia onerosa l’incidenza degli acquisti di materie prime sul fatturato delle micro e piccole imprese italiane basta un solo numero, ma molto significativo: nei settori dell’industria manifatturiera e delle costruzioni pesano per ben il 42,5%. E il conto dei rincari delle commodities non energetiche per le piccole aziende è salato: 46,2 miliardi.



La spinta dei prezzi, purtroppo, ha tutta l’aria di non essere temporanea, anzi. E come ben sanno gli economisti, i rincari prolungati delle materie prime non camminano mai da soli, prima o poi – in questo caso più prima che poi – raccolgono per strada un’altra pericolosa compagna di cammino, l’inflazione, che già oggi sta inducendo le Banche centrali a nuove politiche monetarie meno accomodanti, con possibili aumenti dei tassi di interesse che da un lato rallenterebbero gli investimenti e dall’altro finirebbero con l’appesantire i bilanci dei paesi, soprattutto quelli, come l’Italia, con elevato debito pubblico, generando così ulteriori effetti recessivi.



A sostenere il trend pernicioso dei listini delle commodities è la maggiore domanda legata alla ripresa della produzione mondiale, trainata soprattutto dalla locomotiva cinese, soprattutto dopo l’annuncio della nuova politica di Xi Jinping volta alla “prosperità comune” – l’obiettivo è redistribuire meglio la ricchezza interna – che sta facendo lievitare i prezzi delle commodities, mettendo in ginocchio l’Europa. Secondo Eurostat, per esempio, a settembre si è registrata una crescita su base annua del 12,1%, con incrementi a tre cifre, per esempio del prezzo del tondo di acciaio per cemento armato (+243%), o a due cifre, come per il pvc (+73%). La Cina, inoltre, uscita per prima dall’emergenza Covid, ha cominciato subito a fare incetta di rame, litio, nickel, manganese, cobalto, zinco, terre rare… Tutti “minerali critici” di cui oggi si avverte un gran bisogno in tutto il mondo per tenere il passo con l’accelerazione verso le economie green e le produzioni sostenibili, dalle auto elettriche agli impianti per il solare.

In parallelo, sempre secondo Confartigianato, “le catene produttive globali non sono riuscite ancora a riorganizzarsi completamente dopo lo shock del Covid-19: le strettoie dell’offerta hanno determinato carenze totali di offerta pari al 2,3% delle esportazioni mondiali, quota che sale al 6,7% per quelle dell’Eurozona, mentre a giugno 2021 gli indici mondiali sui tempi di consegna sono ai massimi dall’inizio delle rilevazioni nel 1999. Alle difficoltà nella logistica delle merci consegue un forte aumento dei costi di trasporto e la scarsa disponibilità di container. Si sono dilatati i tempi di permanenza delle merci sulle banchine portuali e a settembre 2021 il costo di spedizione tramite container si è quasi quadruplicato (+381,5%) rispetto a gennaio 2019”.

Ecco perché piove sul bagnato: accanto ai rincari, infatti, da tempo si registra una pesante carenza di materie prime, tanto che a settembre “la scarsità di materiali come ostacolo alla produzione” è stata indicata da un’impresa italiana di costruzioni su dieci, un livello che non si vedeva dal picco negativo dell’estate 2009.

Il mix rarefazione-rincari-inflazione, dunque, è tutt’altro che indolore, anzi provoca effetti tossici letali sull’economia e sulle imprese: determina una riduzione del valore aggiunto, comprime la crescita economica, riduce la propensione a investire delle imprese, compromette sia i processi di innovazione che la domanda di lavoro, rallenta la produzione industriale, costringe a volte le imprese, pur in presenza di una ripresa degli ordinativi, a non rispettare le consegne e a far ricorso agli ammortizzatori sociali.

In questo quadro, che cosa rischia in più l’Italia? Il “rimbalzone” del +6% previsto quest’anno è destinato a sgonfiarsi più in fretta? Rincari e carenze delle materie prime quanta zavorra metteranno sulle spalle della nostra ripresa? Una risposta arriva da Enrico Quintavalle, responsabile Ufficio studi Confartigianato, che su Quotidiano Energia del 4 ottobre ha sottolineato come “il maggior costo dei prezzi dell’energia rispetto alle previsioni di sei mesi fa determina una riduzione di 0,3 punti alla crescita del Pil del 2022 e di 0,2 punti nel 2023; se consideriamo che nel quadro di finanza pubblica della Nota di aggiornamento si delinea per il 2022 una manovra espansiva di 22,6 miliardi di euro di maggiore deficit, che determinerà una maggiore crescita di mezzo punto di Pil, si osserva che nel prossimo anno l’impatto del caro-petrolio assorbe circa il 66% dell’impulso espansivo della prossima manovra”. E conclude: “Nell’analisi di rischio proposta nella Nota, si stima che quotazioni del greggio superiori di 20 dollari al barile per il triennio 2022-2024 determinerebbero effetti recessivi per mezzo punto di Pil nel 2022, per 0,4 punti nel 2023 e per 0,2 punti nel 2024”. Insomma, questo scenario di rischio sul prezzo del petrolio “assorbirebbe un quarto della maggiore crescita stimolata dal Pnrr”.

La miccia è da tempo accesa verso un carico da novanta che non sarà facile disinnescare.

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