Cui prodest? La domanda che Seneca poneva nella sua Medea è rimasta, nel corso dei secoli, quanto mai attuale e pertinente, la chiave di volta per indirizzare la ricerca delle responsabilità di fatti e soprattutto misfatti.
Per tentare di comprendere cosa sta sconvolgendo oggi il quadrante mediorientale, l’antica formulazione rischia di essere l’unica in grado di diradare le nebbie che da tutti i fronti – arabi, israeliani, iraniani, ma anche statunitensi, egiziani, qatarioti – si continuano ad alzare.
L’altro giorno, a Doha, al termine dell’ennesimo round di trattative per la tregua, il presidente Biden ha detto che “un accordo non è mai stato così vicino”, giusto mentre Israele bombardava ancora la Striscia, colpendo anche campi profughi, e mentre Hamas ammetteva che un suo miliziano aveva “giustiziato” per vendetta un ostaggio di Tel Aviv sotto il suo controllo. Dopo poche ore un portavoce di Hamas (parte che non si era nemmeno presentata alla riunione) ribatteva che la sua organizzazione “respingeva qualsiasi nuova condizione”. E dopo altre poche ore gli Usa replicavano che “le parole di Hamas non vanno prese sul serio”.
In realtà, ormai in tutto il mondo poche anime belle prendono sul serio qualsiasi esternazione arrivi in proposito. E allora si ritorna a Seneca: perché non si vuole uscire dallo stallo? A chi giova tutto questo?
La risposta più tragica è che forse giova a tutti. Incredibile? Mica tanto. L’equazione a più fattori di Netanyahu insiste nell’attesa del cambio al vertice Usa (si sa che Trump sarebbe ben più deciso di Biden nel sostegno alla guerra contro il mondo sciita), la volontà di regolare i conti una volta per tutte con i nemici che da decenni circondano e attaccano il suo territorio (non solo Hamas da Gaza, ma anche Hezbollah dal Libano, gli Houthi dallo Yemen, e la galassia di altre milizie islamiste addestrate e finanziate dall’Iran, che stazionano in campi allestiti in Giordania, in Iraq o in Siria), fino allo scontro decisivo con il nemico numero uno, l’Iran della teocrazia che al primo punto della sua ragione sociale vede da sempre l’annientamento dello Stato ebraico.
Non solo: per il premier di Israele, che resta aggrappato alla sua leadership solo grazie al sostegno del Likud e dei suprematisti ebraici dell’ultradestra (compresi i coloni che stanno seminando il terrore nella West Bank), la guerra – o le guerre, combattute almeno su due fronti – è quindi anche una questione di sopravvivenza, costata però già migliaia di vite umane.
Poi c’è l’equazione di Biden, che malgrado gli sbandierati appelli al suo intemperante alleato ebreo per una qualche moderazione, continua a dislocare portaerei (USS Lincoln), sottomarini (USS Georgia), caccia (i nuovissimi F-35C) e marines in tutto il settore, e a stanziare miliardi di aiuti, soldi che comunque sa bene torneranno in patria, visto che saranno spesi da Israele in armamenti targati US. Il secondo fattore dell’equazione per Biden è la capacità contrattuale delle potenti lobby americane pro Israele e pro gun industry: come potrebbe alienarsele, alla vigilia delle elezioni?
Ed infine c’è l’equazione dell’Iran e delle sue milizie proxy (citate sopra). Per Hamas una tregua alle condizioni prospettate equivarrebbe ad una sostanziale rinuncia definitiva alla sua influenza, politica e militare, sulla Striscia, che sarebbe destinata probabilmente a ritornare sotto il controllo dell’ANP, l’autorità palestinese confinata (piuttosto delegittimata e contestata) oggi a Ramallah, o di neo-governance straniere o addirittura israeliane.
Per Hezbollah, poi, ogni tregua a Gaza minerebbe il principale motivo della nuova fase di attacchi nell’alto Golan e in Galilea, con i continui lanci di missili ai quali l’IDF risponde con conseguenti raid aerei, e spingerebbe il governo libanese, sotto spinta ONU, ad un incremento delle forze armate regolari, che causerebbero problemi al suo primato nel sud del Paese.
Stessi fattori nell’equazione per i ribelli dello Yemen, gli Houthi, dei quali si sono perse forse le tracce mediatiche, ma che continuano – anche solo con le minacce e i colpi assestati nei mesi scorsi – a compromettere i traffici marittimi nel Mar Rosso, e quindi i commerci internazionali.
Ed infine resta l’equazione Iran, che continua un balletto derviscio dove la rotazione può fermarsi in ogni momento e in qualsiasi casella: la minaccia di una vendetta, tremenda vendetta direttamente contro Israele (che ha osato colpire il numero due di Hamas a Teheran, facendo tremare l’autostima dei Guardiani della rivoluzione); l’attesa dell’eventuale tregua a Gaza, che potrebbe far desistere dall’attacco; il perdurare delle guerre di logoramento contro Tel Aviv, fatte di propaganda, avvisi roboanti di massacri imminenti, e stillicidi quotidiani portati a segno dalle sue milizie filosciite. Il tutto nell’evidente tentativo di allontanare dai propri confini il pericolo di un conflitto più esteso, che vedrebbe il coinvolgimento delle forze USA. Più produttivo, dunque, che la situazione resti confusa e incerta, nelle nebbie, tra un passo avanti, uno di lato e uno indietro, abitudine radicata nel mondo musulmano.
Ma, come in tutte le equazioni più toste, c’è anche un’incognita, una variabile: la Russia, che ha recentemente intensificato la sua presenza militare in Libia, ma che ha anche creato una base militare e un osservatorio in territorio siriano, sulle alture del Golan. E oltre alla sua base-porto militare, Tartus in Siria, sta pianificando la creazione di una nuova base navale in Sudan, per avere un controllo ravvicinato sul Mar Rosso. Nelle nuove strategie geopolitiche che si stanno studiano per l’intero quadrante, se ne dovrà tener conto.
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