Gli “accordi di Abramo” e i loro recenti sviluppi sembrano aver avviato a conclusione la questione israeliana che, con la parallela questione palestinese, ha condizionato a fondo le vicende di tutta la regione mediorientale. Con la recente aggiunta del Marocco, sono ormai sei gli Stati arabi che hanno rapporti normali con Israele: Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Ci si può aspettare che, quanto prima, anche l’Arabia Saudita si unisca al gruppo, dati i rapporti non ufficiali già esistenti e convalidati dal recente incontro di Benjamin Netanyahu con Mohamed bin Salman, erede al trono e uomo forte del regime saudita. La presenza del segretario di Stato americano Mike Pompeo ha siglato la regia statunitense dietro queste aperture verso Israele e rimane da vedere come si comporterà la prossima presidenza.



A questo punto, il diritto all’esistenza dello Stato di Israele sembrerebbe messo ancora in discussione solo dall’Iran, che così può presentarsi come l’unico sostenitore dei diritti dei palestinesi traditi da sauditi e soci. Anche la Turchia si è espressa contro gli accordi gridando al tradimento dei palestinesi: entrambe le posizioni, Teheran dal campo sciita, Ankara da quello sunnita, sembrano dirette a contrastare le pretese di leadership del mondo musulmano da parte di Riyadh. 



Israele ha consolidato nel tempo la sua posizione a scapito dei palestinesi, anche per gli errori di questi ultimi, e avrebbe quindi tutto l’interesse a chiudere definitivamente la questione palestinese. Verrebbe così tolta a Teheran un’arma di propaganda e si allungherebbe la lista dei Paesi arabi che riconoscono lo Stato di Israele, ivi compresa l’Arabia Saudita. Ritorna qui importante il ruolo degli Stati Uniti e i possibili cambiamenti derivanti dalla nuova amministrazione. Sia Biden che la sua vice Harris sono nettamente a favore dello Stato palestinese previsto dalla strategia dei “due Stati”, ma il loro atteggiamento verso il governo Netanyahu, decisamente meno compiacente rispetto a Trump, potrebbe creare qualche difficoltà. I punti più spinosi da affrontare sono la limitazione, meglio la riduzione, degli insediamenti dei coloni israeliani nei Territori e Gerusalemme Est capitale del nuovo Stato palestinese.



A ciò si aggiunge la notevole complessità della situazione politica di Israele, costantemente sull’orlo di crisi di governo, cui corrisponde un progressivo frazionamento della società israeliana. La figura di Netanyahu si sta dimostrando sempre più divisiva e si sta creando nell’elettorato israeliano una composita opposizione all’insegna del “comunque senza Netanyahu”.

È quindi pensabile che l’attuale governo di coalizione si trovi diviso anche nei confronti della questione palestinese, aumentando i rischi di un passaggio alla quarta tornata elettorale in due anni.

Quanto detto finora riguarda le trattative con l’Autorità Palestinese e la Cisgiordania da lei governata, ma non possono applicarsi direttamente a Gaza. Hamas, che governa la Striscia, è in rotta con l’Ap tanto quanto con il governo israeliano e non sembra molto disposta a trattative. Qui il ruolo più rilevante è giocato da Erdogan, per il quale Hamas rappresenta una utile spina nel fianco di Israele, con cui Ankara ha congelato da tempo le relazioni diplomatiche. Il progressivo allineamento con Israele di diversi Stati arabi e dell’Arabia Saudita minaccia il progetto di Erdogan di porsi a capo del mondo sunnita. In funzione anti-israeliana, anche lo sciita Iran è a fianco della sunnita Hamas.

Oltre che porre fine a una drammatica storia che dura da settant’anni, la costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania sarebbe importante per contrastare l’espansionismo iraniano e, soprattutto, turco. Ciò porta al coinvolgimento, accanto agli Stati Uniti, di Unione Europea e Nato. Washington ha già imposto sanzioni ad Ankara a seguito dell’acquisto di armi dalla Russia, atteggiamento non molto coerente per un membro della Nato come è la Turchia. Come non è accettabile l’estensione unilaterale delle Zee turche nel Mediterraneo orientale a danno di un altro membro della Nato, la Grecia, e di un membro dell’Ue, Cipro. Da qui le sanzioni anche di Bruxelles, che non sembrano tuttavia frenare l’atteggiamento sempre più aggressivo di  Erdogan. Come conseguenza si sta sviluppando un comune interesse tra Stati europei mediterranei, Egitto e Israele, in funzione antiturca.

La “questione israeliana” sta evolvendo verso la soluzione, la “questione palestinese” vede forse una via d’uscita, ma in compenso sta nascendo una sempre più minacciosa “questione turca”.