Che sia stato in Siria o in Giordania, si tratta comunque di un attacco aereo in cui sono morti tre soldati americani. E questo potrebbe comportare una reazione da parte degli USA in un territorio già al colmo della tensione per la crisi creata in Medio Oriente dalle ripercussioni della guerra a Gaza. Secondo un portavoce di Amman, i droni che hanno ucciso i militari avrebbero colpito nella base di al Tanf, in Siria; secondo il Comando Centrale USA, invece, lo avrebbero fatto in Giordania. La stampa statunitense accredita la versione di un avamposto in territorio giordano della base siriana. Quello che conta è come risponderanno gli americani, tenendo conto che le milizie che hanno colpito sono finanziate dall’Iran.
Sullo sfondo, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, c’è la trattativa USA-Iran per sbloccare i fondi di Teheran in Qatar, un negoziato che potrebbe portare a una de-escalation dei proxy iraniani (Hezbollah, Houthi, Hamas e altri ancora) nella regione. Fino a che non si conclude, però, questi attentati potrebbero servire come elementi di pressione, alimentando uno scontro che vede come teatro soprattutto la Siria, ormai ridotta a una espressione geografica più che a un vero Stato, tanto da diventare terreno di confronto armato tra i Paesi che esercitano la loro influenza nella zona.
La realtà è che il Medio Oriente avrebbe bisogno di un’azione decisa degli attori regionali, Paesi arabi e Iran, per trovare gli equilibri che evitino all’area di essere una polveriera sempre pronta a esplodere.
Quello sul confine siro-giordano non è il primo attacco agli insediamenti militari USA nella zona. Perché è più pericoloso in termini di possibile escalation del conflitto?
La prima cosa curiosa è la collocazione in Giordania della base, posto che sia così, vista la disputa tra americani e giordani sulla localizzazione dell’attentato. In sé è un episodio che purtroppo rientra nella normalità; quello che stona sono le vittime americane, tre morti e molti feriti. Finora non era successo niente del genere, anche perché gli USA i droni o i missili li avevano sempre fermati.
Nelle stesse ore dell’attentato si è parlato di questa trattativa USA-Iran a Doha per sbloccare fondi iraniani. Una intesa che potrebbe portare a un allentamento della tensione in Medio Oriente. Come mai il negoziato viene accompagnato da azioni militari del genere?
Le due cose non sono in contraddizione. I negoziati sono difficili. L’amministrazione Trump ha voluto uscire dall’accordo sul nucleare con l’Iran, un’intesa non perfetta ma che funzionava; Biden ha cercato di ripristinarla ed è arrivato vicino a farlo, con il conseguente sblocco dei soldi iraniani in Qatar e in Corea del Sud. Poi però ci fu l’omicidio di Mahsa Amini, dopo che la polizia morale l’aveva messa in custodia per non avere indossato correttamente il velo. La brutalità con la quale il regime iraniano aveva represso le proteste giovanili ha obbligato gli USA a soprassedere: in quelle condizioni un accordo del genere al Congresso americano non sarebbe mai passato.
Caduta la trattativa su un nuovo accordo relativo al nucleare, i colloqui USA-Iran si sono interrotti?
Hanno scelto una strada diversa, quella di una trattativa proprio sui soldi, nella quale uno degli elementi sul tavolo è il ricorso ai proxy iraniani per bombardare gli americani. Una forma pragmatica, di relativa pacificazione, in un momento difficile come questo. Il fatto che abbiano ripreso questa trattativa è positivo, ma fino a che non si esaurisce, come forma di pressione le milizie filoiraniane faranno quello che sono deputate a fare.
Biden ha già detto, però, che non lasceranno impunite queste tre morti. Che risposta potrà dare all’Iran?
Bombarderanno infrastrutture e comandi della milizia responsabile dell’attacco con i droni, facendo fuori i comandanti e pareggiando il colpo. Queste milizie potrebbero essere anche sfuggite al controllo iraniano, non lo possiamo sapere.
Ufficialmente l’Iran ha dichiarato che non c’entra niente con questa azione. Potrebbe essere stata, quindi, un’iniziativa autonoma di gruppi che comunque sono legati a Teheran?
Dal punto di vista tecnico-diplomatico l’Iran non c’entra nulla; in realtà, la sua partecipazione attiva a quello che succede nella regione è data dalle armi fornite dagli iraniani a milizie come Hamas, Hezbollah e Houthi. Danno anche appoggio politico e consenso religioso. Nessuno vuole che si allarghi il conflitto, nemmeno l’Iran: senza aver mosso le sue forze armate ed essersi impegnato in un conflitto che potrebbe avere come conseguenza il bombardamento di Teheran, controlla quattro Paesi mediorientali: Libano, Siria, Iraq e Yemen. In più sostiene Hamas. Perché dovrebbe azzardare passi ulteriori rischiando una comfort zone come questa?
Ma l’Iran ha una potenza economica tale da rifornire tutte queste milizie?
Le milizie che permettono loro di controllare questi Paesi non hanno divisioni corazzate e cacciabombardieri: hanno droni e missili che ormai non sono così difficili da trovare. Non ci sono costi spaventosi da affrontare come per la guerra in Ucraina. L’Iran poi ha il petrolio. Quella iraniana è sempre stata una rivoluzione espansiva, attiva dove ci sono gli sciiti. Gli iraniani, come i cinesi e a differenza di altri Paesi arabi, sono storicamente imperialisti.
Anche l’attacco nel quale sono morti i soldati americani, di fatto, al di là delle dispute sulla vera collocazione, si è verificato in Siria, in un’area in cui si registrano attacchi israeliani, di milizie filoiraniane e a volte anche turche contro i curdi. È un Paese così allo sbando da permettere che tutti facciano quello che vogliono?
La Siria è come l’Italia ai tempi di Metternich, un’espressione geografica. I suoi, in realtà, non sono confini politici: il regime siriano esiste grazie ai russi e agli iraniani. I confini con la Giordania, con l’Iraq, con Israele sono tutti controllati da agenti esterni come l’Iran, i russi e l’ISIS. Poi ci sono le basi americane che originariamente avevano un ruolo anti-ISIS, che in quelle zone ancora esiste. Gli USA sono lì per sostenere gli interessi dei loro alleati nella regione.
Israele ha mandato a segno diverse incursioni in Siria, soprattutto negli aeroporti e anche in alcune fabbriche.
I russi controllano lo spazio aereo in Siria, ma si girano regolarmente dall’altra parte. Putin e Netanyahu sono molto simili come comportamento politico: spesso gli israeliani hanno bombardato le fabbriche dove vengono assemblati i droni iraniani che poi vengono venduti ai russi per la guerra in Ucraina. Per tante ragioni, anche storiche, glielo permettono: Israele è stato fondato dai russi insieme a bielorussi, ucraini, polacchi. Il secondo uomo più ricco di Israele è Abramovich: gli oligarchi russi non possono entrare nei Paesi occidentali, l’unico Paese dove possono andare è Israele. Questo è l’Oriente.
Tornando alla Siria?
La Siria è un involucro, un campo di battaglia, non ha alcuna autorità sul suo territorio. È uno stato fallito, come il Libano.
Iran e anche Russia hanno intenzione di tenerli così perché a loro fa comodo?
Sì, a meno che non succeda qualcosa d’altro. In un articolo pubblicato su Haaretz si formulava l’ipotesi che finalmente il mondo arabo si mobiliti. I Paesi che contano (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania) potrebbero essere gli attori di un percorso diplomatico non solo per mettere da parte Hamas, ma per fare in modo che Hezbollah permetta che il Libano abbia un presidente ed elegga un governo. Una sorta di pacificazione in cui il regalo per l’Iran è un accordo con l’Arabia Saudita per spartirsi le sfere di influenza della regione. Un’idea molto lontana, ma intelligente: Iran e Arabia hanno già ripristinato i rapporti, anche prima che arrivassero i cinesi. Il Qatar ha sempre avuto eccellenti rapporti con l’Iran, si dividono amichevolmente il più grande gas field del mondo.
(Paolo Rossetti)
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