Due settimane fa veniva ucciso a Teheran il leader di Hamas, Ismail Haniyeh. La prima ricostruzione attribuiva l’omicidio mirato ad un missile, di circa un metro e mezzo, partito da Israele o da un suo proxy, leggi Azerbaijan. Missile che, con qualche chilo di esplosivo in testata, avrebbe attraversato una finestra di 80 cm per 100 e colpito il suo obiettivo in un appartamento all’interno di un’installazione militare dei Pasdaran in Iran. Senza danni collaterali. Poi la versione è cambiata e l’attentato è stato attribuito ad una bomba piazzata sul posto mesi prima. Il governo Netanyahu non ha mai confermato né smentito il suo coinvolgimento nell’attentato. Particolare non da poco, perché questo dubbio aumenta il peso e l’ampiezza delle azioni possibili, anche minacciate, sia per Teheran che per Tel Aviv. Quasi contemporaneamente, a Beirut un missile vero, partito da Israele, uccideva il capo militare di Hezbollah, Fuad Shukr, distruggendo il palazzo dove si trovava l’obiettivo, e uccidendo tutti quelli che vi erano dentro.
Tanto la Repubblica Islamica che Hezbollah hanno giurato tremenda vendetta, ma ancora la reazione si fa attendere; o forse non ci sarà, perché l’attentato, eufemisticamente, non è dispiaciuto agli iraniani, e per capirlo basta seguire i fatti. Oltre la cortina propagandistica sollevata dagli iraniani, che parlano di attesa strategica per dosare la reazione e ripulire gli apparati di intelligence dalle infiltrazioni, si cela un periodo di instabilità politica della teocrazia, che vede nella lotta all’Occidente l’unica narrazione capace di compattare il mosaico di lingue, culture e religioni che compongono l’impero che fu persiano. Hezbollah parla di guerra psicologica per sfruttare i timori creati dall’attesa della reazione, ma a sua volta tentenna, per l’oggettiva instabilità che gli metterebbe contro la maggioranza dei libanesi.
Focalizziamo ora la nostra attenzione sulle circostanze della morte di Ismail Haniyeh, in particolare sul fatto che nell’operazione non siano stati colpiti altri personaggi presenti nel complesso. Tra questi, in un appartamento vicino, Ziad Nakhaleh, segretario generale della Jihad islamica palestinese, movimento molto più vicino alla rivoluzione iraniana rispetto ad Hamas. Il secondo dato è che per l’attentato, in ogni caso, il bersaglio doveva essere il solo presente. Circostanza verificabile solo da un agente sul posto.
A questo aggiungiamo la collaborazione di Israele con l’Iran, che dura da prima della rivoluzione, da quando Israele formava gli agenti dell’intelligence iraniana. Nel periodo in cui entrambi i Paesi collaboravano a favore dell’Occidente in chiave anti-arabo-sunnita. Su tutto questo il recente cambio al vertice iraniano ha dato ad entrambi il la per un cambio di passo militare e diplomatico.
Per completare il quadro, infine, Ismail Haniyeh è stato colpito appena è uscito dal Qatar. Emirato che finora ha tenuto in mani arabo-sunnite le redini dei negoziati su Gaza, con pochi risultati. Il Qatar inoltre ha finanziato Hamas, ed ha protetto le sue élites sunnite. Mentre gli iraniani sono in gran parte persiani sciiti, ed azeri, sempre sciiti ma turcofoni, tutti caucasici e non arabi, portatori di una narrazione imperiale panislamica persiana.
Infine con la morte di Haniyeh, collaboratore dei qatarioti, l’Iran, i suoi proxy Houthi ed Hezbollah rientrano al centro dello scacchiere diplomatico nel quadrante mediorientale, vitale per la globalizzazione a trazione atlantica. Gli sforzi propagandistici dei Paesi occidentali volti a intestarsi la dissuasione dall’intervento iraniano ci fanno anche vedere l’intento di chiudere il fronte mediorientale con una pace imposta anche a Israele. Una pace armata che permetterebbe prima di tutto ad Israele di fermare l’emorragia di risorse dovuta alla guerra, visto che Fitch ha portato il rating israeliano da A+ ad A, prevedendo un peggioramento. Permetterebbe anche a noi atlantici di allontanare l’Iran dalla scomoda influenza russo-cinese e di ridistribuire risorse preziose verso l’Ucraina, ma anche e soprattutto verso il fronte del Pacifico, dove la Cina sta cercando apertamente di abbattere la talassocrazia americana.
In questa partita il nostro Governo, unico saldamente in carica tra i grandi Paesi UE, allineandosi apertamente con la Nato ma siglando anche un patto commerciale con i cinesi, spera di sterilizzare le contrarietà con la dirigenza dell’UE e, approfittando delle difficoltà tedesche e francesi, cerca di ristabilire una propria zona di influenza nel Mediterraneo. Vediamo se la nostra politica sarà all’altezza.
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