L’informativa resa dal presidente del Consiglio alle Camere in tema di modifica al Mes non ha consolidato la posizione del Governo, tutt’altro. Alle aspre contestazioni ribadite dalle forze di opposizione, si sono aggiunte le critiche del M5s e di Leu. Alla Camera l’esponente del M5s ha affermato che l’Unione Europea “dovrà” ascoltare le richieste italiane che risulteranno dal dibattito parlamentare in programma la settimana prossima; anche al Senato il M5s ha chiesto una pausa di riflessione, opportune verifiche e conseguenti cambiamenti sulla base della volontà parlamentare. E il deputato di Leu ha confermato la contrarietà di questa formazione politica al nuovo Mes, non soltanto in ragione della “elevatissima probabilità di ristrutturazione del debito pubblico” che ne scaturisce, ma anche perché il testo sinora concordato “aggrava i difetti” del sistema già vigente.



Allo sfilacciamento della maggioranza fanno da contraltare le spinte che provengono dall’Unione, con l’invito a chiudere in fretta la partita. Ma il processo ormai innescatosi non permetterà il ricorso a qualche facile escamotage. L’appello alla solidarietà europea, così come il timore di un nostro isolamento dalle altre Cancellerie, non sollecitano emozioni forti nell’opinione pubblica, né spaventano ancora a sufficienza i risparmiatori e le imprese.



Anche la paura dello spread – richiamata, tra l’altro, dal sen. Monti – fatica ad essere attivata, dato che il responsabile ultimo sarebbe facilmente individuabile proprio nella politica perseguita dal presente Governo che, nella persona del suo presidente, ritiene che il nuovo Mes costituisce “un punto di equilibrio a tutela degli interessi nazionali”.

Né appare sufficiente il frequente richiamo alla logica del “pacchetto”, secondo cui, piuttosto che pensare al nuovo Mes ormai definitivamente chiuso, sarebbe meglio battersi sugli altri fronti di riforma ancora aperti.

Tanto più che il susseguirsi di dichiarazioni alquanto eterogenee indebolisce il fronte favorevole al nuovo trattato, tenuto conto delle chiare disposizioni legislative poste dalla legge n. 234/2012 circa il necessario coinvolgimento del Parlamento nella definizione dei trattati e l’obbligatorio rispetto delle indicazioni parlamentari da parte del Governo (quando si prescrive che “Il Governo assicura che la posizione rappresentata dall’Italia nella fase di negoziazione degli accordi” in materia finanziaria o monetaria o che comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblicate “tenga conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere”).



Il ministro Gualtieri, nell’audizione di fronte alle Commissioni, ha qualificato come “chiuso” il nuovo trattato concordato, e dunque senza prima aver consentito al Parlamento di esprimersi con un apposito atto di indirizzo, come, invece, era richiesto dalle risoluzioni parlamentari del 19 giugno 2019; nello stesso tempo, ha definito “perfettibile” il rapporto determinatosi tra Governo e Parlamento dopo le predette risoluzioni. Il presidente Conte, dal canto suo, ha sostenuto che “su questa materia vi è stato, con il Parlamento italiano, un dialogo costante, un aggiornamento approfondito”, ma ha anche ammesso che, rispetto alle molteplici indicazioni poste dalle Camere nel giugno 2019, egli ha chiesto in sede europea soltanto l’inserimento del principio del pacchetto ed ha ottenuto che le “procedure per le ratifiche nazionali sarebbero state avviate solo quando tutta la documentazione fosse stata concordata e finalizzata”. 

Seppure il dibattito nelle Assemblee si sia concluso senza alcuna votazione, gran parte dei gruppi parlamentari, fatta eccezione per il Pd e Italia viva e qualche altra voce isolata, ha chiesto al Governo di fermarsi, e dunque di sospendere il procedimento di conclusione delle trattative, sino alle decisioni che saranno assunte in sede parlamentare la settimana prossima. Sin da subito per il presidente Conte sarà arduo discostarsi da queste indicazioni che riscuotono la larga maggioranza del Parlamento, anche se non coincidente con la “sua” maggioranza.

Anche perché, mantenendo rigorosamente il ruolo costituzionale di rappresentante dell’unità nazionale, sinora il capo dello Stato non ha voluto sbilanciarsi pubblicamente a favore di nessuno dei duellanti. Così, questo grave conflitto dovrà essere affrontato dal presidente del Consiglio sempre più stretto da un duplice confronto che, allo stato, non appare facilmente componibile: con il Parlamento – la cui fiducia deve essere mantenuta – e con le forze dominanti in Europa, del cui sostegno non può fare a meno.

Stavolta, l’avviso ai naviganti è stato lanciato dalle Camere. E, se la tempistica sarà confermata, saranno l’Unione e gli altri Stati europei a dover agire in seconda battuta. Passerà dal Parlamento – e non più del binomio Quirinale-Palazzo Chigi – la nostra nuova visione dell’Europa, fondata, tra l’altro, sull’effettiva parità tra gli Stati e sull’estensione a tutti i Paesi delle stesse garanzie di democraticità che, sin dal 2012, il Tribunale costituzionale federale tedesco ha preteso a favore della Germania?