56.210 migranti sbarcati nel periodo 1 gennaio-29 agosto contro i 38.715 del 2021 e i 18.678 del 2020. A dirlo è il cruscotto statistico del ministero dell’Interno, che viene aggiornato quotidianamente. L’altro ieri è stato battuto ogni record di sbarchi, con punte di 11 eventi all’ora e 50 nell’arco della giornata tra Lampedusa, Marettimo e Pantelleria.



“Il governo italiano si è una volta ancora dimenticato della Libia”, dice al Sussidiario Mauro Indelicato, giornalista di InsideOver esperto di geopolitica. E La latitanza politica si paga. Come se non bastassero il caos istituzionale e la guerra per bande, in Libia attualmente c’è perfino una cellula di al Qaeda che sfida direttamente i nostri apparati di sicurezza. Secondo Indelicato, il blocco navale propugnato da FdI non è attuabile.



Il dossier libico è stato messo nel cassetto? Eppure, la maggioranza dei barconi viene dalle coste libiche.

Come spesso capita, a prescindere dal colore dei governi in sella, della Libia ci si dimentica. Ci sono sempre state, con Renzi, con Gentiloni, con Conte e con Draghi – giusto per citare l’ultimo decennio – “vampate” di attenzione sul dossier libico con successive amnesie. All’Italia è sempre mancata, sotto questo fronte, una certa continuità.

Attualmente com’è la situazione?

È critica. Ma a preoccupare sono le prospettive future: a Tripoli le milizie rivali sono tornate a spararsi, le condizioni per un governo di unità sono molto lontane, dunque mettere le mani sul dossier migranti da ora in avanti sarà ancora più difficile.



Quali fattori incidono maggiormente sui flussi? Il vuoto di potere, i trafficanti, le milizie, la Russia, la Turchia?

La mancanza di continuità si paga. E quindi siamo esposti a quelle che sono le dinamiche delle varie situazioni contingentali. Direi che siamo alla mercé di tutti i vari elementi citati. Alla mercé di attori internazionali che in Libia hanno sempre più peso, a partire da Russia e Turchia.

Cosa fa la Russia?

Soffia sul fuoco della Cirenaica, armando Haftar e dando sostegno al governo di Fathi Bashaga, il quale tra venerdì e sabato scorsi ha provato a prendere con la forza il potere estromettendo l’altro governo, quello di Abdul Hamid Dbeibah, molto vicino invece alla Turchia. Il fallimento dell’operazione di Bashaga ha inevitabilmente rafforzato le milizie vicine a Dbeibah e, di conseguenza, potrebbe aver rafforzato anche il ruolo di Ankara a Tripoli.

E poi?

La confusione sul campo e il confronto tra più attori interni e internazionali ha poi inevitabilmente riflessi sul disordine riscontrabile in Libia. Un disordine che è primo alleato dei trafficanti, con tutte le gravi conseguenze del caso, specialmente per noi. In un contesto del genere, Roma ha le mani legate ed è in balia esclusivamente degli eventi. Non per sfortuna, ma per errori strategici che si susseguono da anni.

A tuo modo di vedere da quando siamo nel pieno della campagna elettorale il fenomeno è qualitativamente cambiato?

Difficile da dire. Trafficanti e metodi operativi dei trafficanti sono sempre quelli. Certo è che dall’altra parte del Mediterraneo sanno bene come, per ogni barcone messo in mare, c’è potenzialmente una polemica in più in Italia.

Veniamo al problema sicurezza. Tu hai scritto di una cellula di al Qaeda attiva in Libia ma legata all’Iran. Dobbiamo preoccuparci?

La cellula in questione si muove dall’Iran. Non sono stati dimostrati rapporti diretti al momento tra Teheran e la possibile nuova leadership di Al Qaeda post Al Zawahiri. Possibile che i nuovi capi siano in Iran ma si muovano poi autonomamente nelle scelte operative dell’organizzazione jihadista. Non dimentichiamoci che Al Qaeda è un movimento sunnita, mentre l’Iran è il riferimento per eccellenza del mondo sciita. Ad ogni modo, la presenza di un’importante cellula in Libia, arrivata dal territorio iraniano, pone seri interrogativi sulla sicurezza dell’Italia e dell’Europa e non solo di Tripoli.

La sua azione potrebbe anche riguardare i flussi?

Sì, il gruppo in questione avrebbe interesse a gestire in parte il flusso migratorio con il fine di mettere maggior pressione al nostro Paese e alle autorità europee.

Qual è al momento la rotta maggioritaria come provenienze?

Se guardiamo i numeri assoluti, scopriamo che sono i tunisini ad essere maggiormente sbarcati in questi primi otto mesi del 2022. Tuttavia la rotta che preoccupa maggiormente rimane quella libica, per quantità di partenze e per una più alta imprevedibilità del fenomeno. Dalla Libia sono arrivati anche afghani e bengalesi, così come egiziani, ivoriani e diverse persone provenienti dall’Africa sub sahariana.

La misura difesa principalmente da FdI è il cosiddetto blocco navale. È attuabile?

L’ex capo di stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa Fabio Mini una volta ha spiegato in un’intervista che, seguendo i dettami del diritto internazionale, se una nave italiana dovesse assaltare un’altra nave al di fuori delle acque territoriali, Roma rischierebbe un processo per pirateria. Dunque il blocco navale per come concepito in senso stretto non è una misura che può essere presa in considerazione.

Viene spesso citato il 1997, quando il governo Prodi 1 decise di imporre un blocco alle navi di migranti provenienti dall’Albania.

Ma anche in quel caso non era un vero e proprio blocco navale, bensì un’azione di interdizione concordata peraltro con lo stesso governo albanese. Interdizione quindi è la parola che si dovrebbe usare per indicare la volontà di controllare il flusso migratorio prima che i barconi arrivino lungo le nostre coste. Farla unilateralmente è alquanto rischioso e anche costoso. Un’interdizione in grado di avere qualche chance di successo è quella vista appunto in Albania 25 anni fa.

Occorre cioè stabilire degli accordi con i governi dei Paesi dirimpettai.

Esatto. Con la Tunisia potrebbe essere siglata senza grande difficoltà un’intesa di questo genere, visto che Tunisi ha governi e istituzioni regolarmente riconosciute e in carica. Con la Libia invece sarebbe evidentemente molto difficile.

La Lega difende il ritorno ai decreti Salvini e alla gestione del fenomeno migratorio 2018-19. È una politica sufficiente o va integrata in altro modo?

In quel frangente i flussi migratori hanno subito un drastico ridimensionamento. Ma occorre anche ricordare che misure come quelle previste nei decreti sicurezza possono andare bene nel breve periodo, non certo se si vuole pensare invece a una strategia nel lungo periodo.

Cosa servirebbe?

Servirebbero interventi strutturali riguardanti le politiche da attuare nel cuore dell’Africa, in accordo con i governi coinvolti, oltre che ovviamente ad azioni concordate con i Paesi nordafricani. Inoltre occorre anche mettere in chiaro una cosa: il fenomeno migratorio illegale è controllato da organizzazioni criminali di cui si conoscono vertici e basi operative. Quindi bisognerebbe pensare a come smantellare tali organizzazioni.

Il sottosegretario Molteni ha difeso l’utilità di hotspot in Libia come parte essenziale di una strategia di contenimento. Se però la loro gestione fosse non solo italiana ma con il concorso dell’Onu – o dell’Ue –, potremmo non avere il controllo delle iniziative e del processo? 

Alcuni anni fa la stessa presidente della commissione Ue, Ursula Von Der Leyen, aveva parlato di un controllo del flusso migratorio lungo i “confini esterni” dell’Europa. Con quindi la possibilità di gestire il fenomeno direttamente lungo le coste libiche. Quindi una partecipazione europea non è così lontana dalla realtà.

Da tutte queste considerazioni emerge che senza mettere “i piedi in Libia” il fenomeno non si governa. Ci sono le condizioni politiche, economiche, di intelligence per farlo?

Ci sono le condizioni di intelligence, soprattutto. Come detto, conosciamo i capi criminali, sappiamo come sono composte le organizzazioni. A mancare, trasversalmente, è la volontà politica.

(Federico Ferraù)

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