Attraversare il Mediterraneo e sparire nelle sue acque. È il dramma di tante giovanissime vite, tanti bambini che salpati dalla Libia o dalla Tunisia e diretti verso le nostre coste, non sono mai arrivati. Le stime di Unicef parlano di 289 bambini morti o scomparsi nella rotta del Mediterraneo centrale, per una media di 11 a settimana, circa 1.500 dal 2018. Numeri che chiedono soluzioni politiche. Domani von der Leyen, Meloni e Rutte saranno nuovamente a Tunisi per tentare di sbloccare una trattativa difficilissima. Il Governo italiano è stato spiazzato dal no di Polonia e Ungheria al patto europeo di giugno e quella delle interlocuzioni dirette e degli accordi bilaterali appare al momento l’unica strada possibile.
La Meloni ha impresso alla nostra politica estera nel Mediterraneo una svolta significativa, ma gli effetti, osserva Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e InsideOver specializzato su questi temi, si potranno avere solo sul medio e lungo periodo “e sono ancorati alla stabilità, molto precaria purtroppo, politica ed economica dei Paesi con cui l’Italia sta operando nell’area mediorientale”.
Il comunicato finale del summit Nato di Vilnius afferma che l’Africa è un’area di interesse strategico. Siamo sicuri che la necessità di garantire la “sicurezza” sul fronte Sud comporti un rinnovato ruolo dell’Italia?
Di certo è impossibile pensare di occuparsi del fronte Sud e dell’Africa senza passare dall’Italia. Per ragioni geografiche, così come anche economiche e legate al nostro know how nell’area, Roma deve per forza di cose essere interpellata e interessata. Se questo può conferire o meno un ruolo centrale al nostro Paese, dipende dall’autorevolezza dei governi in carica. Si tratta di un’aspettativa auspicabile che, per essere realizzata, ha bisogno di una precisa agenda politica da parte della nostra classe dirigente.
Domani von der Leyen, Meloni e Rutte saranno nuovamente a Tunisi. Si parla di un sostegno al bilancio di 150 milioni e di 105 milioni da destinare alle misure contro i trafficanti. Ma l’accordo non c’è e non è ancora prevista la firma. Chi o che cosa sta frenando l’intesa?
Ci sono importanti divergenze tra il presidente tunisino Saied e il “blocco occidentale”, ossia Ue ed Fmi. Tunisi non vuole – e in parte non può – applicare quelle riforme chieste dall’Fmi per lo sblocco di una parte dei soldi concordati nell’ottobre del 2022 per ridare ossigeno alla soffocata economia del Paese nordafricano. Questo a cascata incide su tutto.
La tua previsione?
L’Europa, con la mediazione di Meloni, ha proposto i sostegni da 150 milioni senza il diktat delle riforme, ma da Tunisi la somma non viene percepita come sufficiente per salvare la situazione. Il tira e molla credo proseguirà a lungo, la missione di domenica non è tra le più semplici.
Secondo Frontex “l’aumento della pressione migratoria sulla rotta del Mediterraneo centrale potrebbe persistere nei prossimi mesi”. Non è una buona notizia per noi. Possiamo solo accogliere e redistribuire, come sta avvenendo, o abbiamo potenzialmente altre soluzioni?
Al momento non si vedono novità all’orizzonte. Il patto europeo sui migranti è stato messo in disparte dopo il no del Consiglio europeo di fine giugno, le norme e gli accordi attuali non hanno fatto incrementare la redistribuzione dei migranti verso altri Paese europei. E c’è un elemento in più a complicare la situazione.
Quale?
L’eventuale redistribuzione si applica ai soli migranti approdati tramite navi Ong o navi militari. La gran parte dei migranti che sono sbarcati in queste settimane dalla Tunisia e dalla Libia sono arrivati per via autonoma.
Negli ultimi sei mesi gli arrivi sono aumentati del 150% rispetto al 2022. L’Italia accoglie e l’opinione pubblica, per ora, acconsente. A tuo avviso c’è un “breaking point” politico, legato vuoi all’opinione pubblica, vuoi alla capacità reale di accoglienza?
C’è una differenza fondamentale tra questa emergenza e quella del 2017, nell’estate cioè degli sbarchi fantasma lungo le coste siciliane e calabresi. Oggi buona parte degli arrivi avvengono per via autonoma a Lampedusa, e l’emergenza è circoscritta all’isola. Sei anni fa invece, i barchini arrivavano un po’ ovunque in Sicilia e la fuga di massa di tanti di loro dalle città della costa verso il nord Italia ha dato alla popolazione una percezione molto forte dell’emergenza. Per questo il tema migratorio è diventato all’epoca centrale nel dibattito politico, influendo e non poco nelle dinamiche elettorali. Oggi l’emergenza non è così percepita come allora e la gente pensa ad altro, sembra avere altre priorità. A partire dall’economia, dal caro prezzi e da tutte le dinamiche post Covid.
Hans Leijtens, capo di Frontex, ha dichiarato che non è né realistico né auspicabile che Frontex intervenga a sorvegliare le frontiere. Forse avremmo bisogno di più accordi bilaterali. C’è lo spazio?
Lo spazio indubbiamente c’è, forse a mancare è la volontà politica. O almeno la volontà di intervenire in breve tempo con dei possibili accordi bilaterali.
Oggi che sviluppi abbiamo del cosiddetto Piano Mattei?
Sotto il profilo politico, gli sviluppi sono stati tanti. L’Italia ha chiuso accordi con l’Algeria, è tornata a essere molto attenta sul dossier libico, ha intensificato i rapporti con Egitto e Marocco, sta intervenendo sulla Tunisia e guarda anche all’area subsahariana. Roma sta provando ad avere una precisa linea politica e un’agenda ben definita sull’Africa e questo è indubbiamente un passo importante. Sotto il profilo pratico ovviamente il discorso è diverso. Gli effetti del Piano Mattei si vedranno eventualmente solo nel medio e lungo periodo e sono ancorati alla stabilità, molto precaria purtroppo, politica ed economica dei Paesi con cui l’Italia sta operando nell’area mediorientale.
(Federico Ferraù)
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