L’Unione Europea, ora a guida svedese, ripropone il tema dei rimpatri dei migranti, annunciando un nuovo piano. E si torna anche a parlare della possibilità di muri ai confini dell’Europa per fermare gli arrivi. In Italia, invece, Governo e Ong sono ancora ai ferri corti dopo che la nave Geo Barents ha effettuato più di un salvataggio non rispettando le norme del decreto Piantedosi.
La tensione, insomma, resta alta, così come problematici gli accordi per controllare le partenze dal Nord Africa, soprattutto per la difficoltà di trovare interlocutori seri in Libia. Il Governo italiano, intanto, sta parlando su quest’ultimo punto anche con Tunisia ed Egitto. Una situazione ancora ingarbugliata. La spiega Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e di InsideOver.
In Unione Europea si ricomincia a parlare di aumentare i rimpatri dei migranti. Sta cambiando qualcosa nel modo di affrontare il problema oppure si tratta solo di parole?
Direi più la seconda. Quando si parla di Europa dobbiamo tenere in considerazione il fatto che la Commissione europea è forse la maggior produttrice di piani: nel corso del tempo ne vengono elaborati e annunciati molti, ma poi l’attuazione è la fase sempre più problematica. Semplicemente è successo che anche i Paesi del Nord Europa si sono accorti del problema immigrazione, sia perché la rotta balcanica, che confluisce nel Centro e nel Nord Europa, è tornata a essere la più frequentata nel 2022 sia perché ci sono alcuni governi di centrodestra, come in Svezia, peraltro presidente di turno della Ue, che pongono la questione migratoria al primo posto. Questa somma di fattori ha spinto la Commissione europea a farsi notare, a essere più attiva: è stato presentato un nuovo piano di 15 punti che però non contiene novità importanti, la cui attuazione è tutta da verificare.
Il piano comunque è ancora in discussione?
È stato annunciato da Ursula von der Leyen ma sarà poi proposto ufficialmente il 9 febbraio in occasione del Consiglio europeo, durante la riunione con tutti i capi di Stato e di Governo europei. Lì verrà discusso e per l’approvazione bisognerà attendere i prossimi mesi. Questo solo per l’approvazione, poi bisognerà vedere l’attuazione. Il cammino è ancora molto, molto lungo. L’Europa annuncia un piano a settimana ma poi all’atto pratico si perde molto tempo prima di entrare in azione.
In Italia tiene banco il caso della Geo Barents, che rispondendo a una richiesta di soccorso ha raccolto un gruppo di migranti, fermandosi poi a soccorrere altri gommoni e contravvenendo così alle disposizioni del decreto Piantedosi per le quali doveva fare rotta verso il porto indicato dopo il salvataggio iniziale: per le Ong un’occasione per cercare di mettere in discussione il decreto?
Credo che sia il primo banco di prova della tenuta dei nuovi provvedimenti del Governo: bisognerà vedere se vorrà applicare alla lettera quanto approvato, mentre le Ong premeranno perché diventi consuetudine questo genere di operazioni, ripetute più volte negli stessi giorni, nello stesso tratto di mare. Si andrà a un nuovo braccio di ferro.
Un braccio di ferro anche legale?
Sì, politico-legale. Negli ultimi anni spesso si è assistito a un doppio braccio di ferro tra Governo e Ong, politico – il Governo sosterrà la sua parte e le ong le loro posizioni – e giudiziario – il Governo attuerà i provvedimenti previsti dalle nuove norme e le Ong proveranno a fare ricorso. Lo dimostra il fatto che c’è ancora in atto il processo su Salvini, ad esempio. Il Governo sosterrà la sua parte.
Si era già parlato d’altra parte di un ricorso contro il decreto e questo può diventare il casus belli. Ma il ricorso come verrà presentato?
Si andrà come al solito al Tar, ai Tribunali amministrativi. Le Ong si rifanno al diritto internazionale sostenendo che è in contrasto con le nuove norme, ma la giurisdizione è italiana: chiedono al giudice italiano di applicare la giurisdizione internazionale. Faccio ricorso in Italia augurandomi che il giudice italiano faccia prevalere al diritto italiano quello internazionale. Potrebbe essere una situazione molto simile a quella di Open Arms del 2019. Tutto è partito da ricorsi della Ong accettati dai Tribunali amministrativi. Poi il braccio di ferro è proseguito a livello politico con Salvini che ha negato, nonostante i ricorsi, l’ingresso e da lì si è aperto un fascicolo, da parte della Procura di Agrigento, fino ad arrivare a un processo.
Il Governo italiano sta indicando come porti di approdo località come La Spezia, Carrara, Trieste, che sono lontane dai luoghi delle operazioni di salvataggio. Per le Ong aumentano i costi.
Materialmente devono fare più strada, devono spendere anche molto di più a livello di carburante, di pagamenti per l’equipaggio. Per le Ong è molto più pesante a livello economico perché devono fare più strada per arrivare al porto del Nord assegnato e poi più strada per tornare verso le acque del Mediterraneo. Per loro costa il doppio se non il triplo.
Un modo per mettere in difficoltà le Ong o solo la volontà di non gravare eccessivamente sui porti del Sud?
A livello politico la linea del Governo è chiara: non sovraccaricare il Sud Italia perché già lì, specialmente in Sicilia, c’è il fenomeno degli arrivi autonomi che le amministrazioni locali devono affrontare. Da qui la scelta di dirottare verso il Nord quel 14% di migranti che ogni anno sbarcano dalle Ong. Poi è chiaro che chi ha previsto questa linea politica potrebbe anche aver visto questo effetto collaterale, che certamente non dispiace al Governo.
Il problema è anche quello di controllare le partenze dal Nord Africa. Cosa si sta muovendo da questo punto di vista? Ci sono state missioni del Governo in diversi Paesi di quest’area anche se poi rimane sempre il tema della credibilità degli interlocutori ai quali ci rivolgiamo.
Ci sono stati trafficanti che sono diventati membri della marina libica. Questo punto è importante da sottolineare, soprattutto in riferimento alla Libia. Dal 2011 in poi, dopo la caduta di Gheddafi, non ha più avuto un Governo stabile, è un Paese sostanzialmente è fallito, senza vere istituzioni in grado di controllare il territorio e quindi l’Italia fatica a trovare interlocutori. Spesso ci siamo trovati ad affrontare il problema con gente che in realtà era anche complice, se non proprio direttamente coinvolta, nel traffico di essere umani.
Come cambia la situazione rispetto a Tunisia ed Egitto?
Con Tunisia ed Egitto il problema è più di natura politica, perché l’interlocutore c’è. Hanno governi stabili, anche se discutibili, come vediamo per esempio dal caso Regeni in Egitto, ma non c’è una guerra, non ci sono altre fazioni che contendono il controllo del territorio. Se strappi un accordo con la Tunisia per un maggiore controllo delle coste, sai che la Tunisia è chiamata a rispondere politicamente di un eventuale mancato controllo delle coste. Poi bisogna vedere se gli accordi che si fanno vengono attuati dalla controparte. La mia impressione è che con l’Egitto qualcosa si muova perché in ballo ci sono accordi di natura economica molto importanti; quindi, anche gli egiziani hanno tutto l’interesse a controllare il flusso migratorio dei propri cittadini che vanno verso la Libia e da lì verso l’Italia, mentre con la Tunisia ancora bisogna aspettare perché lì la situazione è un po’ più ingarbugliata.
(Paolo Rossetti)
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