Come preannunciato pochi giorni fa dalla presidente Ursula von der Leyen, la Commissione europea ha presentato una proposta di riforma del trattato di Dublino 3, con l’obiettivo di rafforzare il controllo e la gestione dei flussi di ingresso dei migranti irregolari nel territorio europeo. È toccato alla Commissaria per gli Affari interni, Johansson, illustrare l’esito di un lungo lavoro di preparazione con il coinvolgimento degli Stati membri, iniziato un anno fa sull’onda negativa del fallimento della proposta elaborata dalla precedente commissione.



La nuova commissaria non ha esitato a mettere le mani avanti, nel descrivere il nuovo impianto come una sorta di compromesso destinato a scontentare tutti gli interlocutori, e come tale destinato ancora ad essere rielaborato con un paziente lavoro di limature e di chiarimenti, dato che molti aspetti, a partire dal meccanismo di redistribuzione dei migranti irregolari tra gli Stati aderenti, sono ancora avvolti da molte ambiguità.



Ciò premesso, bisogna riconoscere che le linee guida della proposta sono destinate a cambiare l’approccio delle istituzioni europee sulle politiche dell’immigrazione, attualmente consegnate a una gestione esclusiva degli Stati nazionali. E che per lo specifico di quelle dedicate alla gestione dei rifugiati, si limitavano alla regolazione, per non dire al vietare, salvo limitate eccezioni, la circolazione degli stessi al di fuori dei territori nazionali di primo ingresso.

Questo è un dato di fatto, che, in via di principio, non viene osteggiato da nessuno dei paesi aderenti che riconoscono la necessità di potenziare l’intervento attivo delle istituzioni europee nel sostegno agli Stati aderenti per le azioni di contrasto verso l’immigrazione irregolare, per il supporto alla gestione della accoglienza, per le iniziative rivolte a promuovere intese con i paesi di origine dei migranti finalizzate a potenziare le iniziative di cooperazione economica, di contrasto per il traffico di esseri umani, per il rimpatrio dei migranti irregolari.



Il punto più delicato, e probabilmente destinato a subire ulteriori compromessi, è indubbiamente quello della redistribuzione automatica dei migranti irregolari che, con una verifica accelerata di accertamento dei potenziali requisiti di rifugiato, condotta con il patrocinio delle istituzioni europee entro 5 giorni dall’identificazione, dovrebbero essere coinvolti in un processo automatico di redistribuzione tra i paesi membri sulla base di criteri predefiniti. La via d’uscita, prefigurata nella proposta per i paesi ostili a tale ipotesi, è quella di assegnare loro in via subordinata il carico di dover rimpatriare nei paesi di origine una quota degli immigrati che non hanno ottenuto il permesso di protezione internazionale, ovvero di accoglierli definitivamente nel loro territorio nella fattispecie del mancato rimpatrio entro un certo periodo.

L’ostilità rispetto a questa ipotesi, già confermata dai paesi dell’Est Europa e dall’Austria, non si limita solo all’indisponibilità ad accogliere i rifugiati, premesso l’accertamento preventivo dei requisiti, per questioni di politica interna, ma si allarga all’orizzonte della natura delle politiche migratorie. Questi meccanismi vengono contestati per l’effetto di attrazione che potrebbero comportare verso altri potenziali immigrati che nutrono l’aspettativa di poter entrare nel territorio europeo.

Su questo secondo aspetto, è bene ricordarlo, le convergenze vanno oltre i paesi ricordati. Una presa d’atto che ha comportato un forte irrigidimento della maggioranza dei paesi rispetto all’ipotesi di trasferire i migranti irregolari ancor prima dell’accertamento dei requisiti di rifugiato, mescolando con quelli economici.

Questo è un tema delicato per l’Italia, non a caso colpevolizzata di aver fornito con l’operazione “Mare Nostrum” un supporto indiretto alla ripresa degli ingressi di migranti economici, che hanno rappresentato la grande maggioranza di quelli irregolari tra il 2014 e il 2017, buona parte dei quali successivamente fuoriusciti dall’Italia verso i paesi del centro-nord Europa. Nella proposta avanzata dalla commissione, l’Italia ottiene diversi riscontri positivi sulle istanze avanzate: il riconoscimento della specificità degli ingressi via mare, l’intervento diretto delle istituzioni europee nelle operazioni di identificazione, di redistribuzione dei migranti, per la sottoscrizione degli accordi con i paesi di origine e per i rimpatri dei migranti irregolari. Interventi destinati ad avere anche un impatto in termini di risorse umane e finanziarie.

Ma anche noi siamo chiamati a fare un esame di coscienza sulla qualità delle nostre politiche. A valle della guerra civile che ha portato alla liquidazione di Gheddafi, in Libia non erano rimaste sacche di immigrati. Si sono riformate, alimentate dalla prospettiva di un transito verso l’Italia e l’Europa, grazie anche alla scarsa rigorosità delle nostre politiche, tutte essenzialmente concentrate sul fornire accoglienza a flussi di ogni genere.

Ritenere che l’evoluzione delle politiche europee possa prefigurare un avvallo per politiche di questo genere, cosa che viene fatta con molta superficialità anche da nostri esponenti istituzionali, sarebbe un grave errore. Se l’emergenza Covid, prima o poi, è destinata a finire, i guasti sull’economia e sul mercato del lavoro a durare a lungo e a generare squilibri tra paesi e all’interno dei singoli paesi. In questo contesto mosse sbagliate in tema di immigrazione verrebbero pagate a caro prezzo.