La ripresa dei flussi migratori irregolari verso l’Italia e la Spagna ha riattivato l’attenzione verso il tema della gestione coordinata delle iniziative rivolte a contrastare le tratte illegali delle persone e la redistribuzione dei profughi. L’incontro di Tunisi, tra la ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e la commissaria europea per gli Affari interni, con le principali autorità del Governo tunisino, per impostare un accordo di cooperazione rivolto a sostenere lo sviluppo locale e promuovere azioni congiunte finalizzate a contrastare i flussi irregolari di migrazione, è certamente una buona notizia. Così come lo è la ripresa della discussione nell’ambito del Consiglio dei ministri della Ue portare a regime una gestione solidale dei nuovi flussi di ingresso, e la riforma dei trattati di Dublino, lasciate in sospeso per le priorità imposte dalla emergenza sanitaria.



Nel breve periodo non sono attese grandi novità. Con la Tunisia sono in vigore da molti anni le intese bilaterali per le iniziative di contrasto e di rimpatrio degli immigrati entrati irregolarmente in Italia. L’ipotesi di redistribuire i migranti irregolari accolti nel primo paese di approdo, verso l’insieme di quelli aderenti all’Ue, in assenza della riforma dei trattati di Dublino, può avvenire solo su base volontaria. Le conseguenze economiche e occupazionali della pandemia non agevolano di certo il superamento delle divergenze che si erano manifestate sulla ipotesi di riforma di questi trattati avanzata dalla Commissione europea nel 2019.



In buona sostanza, la prospettiva di una significativa ripresa dei flussi irregolari, i nostri servizi di intelligence ne prevedono almeno 70mila, dovrà essere affrontata con il vecchio armamentario, con l’inevitabile corollario di polemiche interne al nostro paese e con gli altri paesi della Ue.

Lo spazio temporale offerto dalla riduzione degli sbarchi negli ultimi tre anni, non è stato utilizzato al meglio dal nostro Paese nella direzione di migliorare la lettura dei fenomeni, che rimangono per la gran parte caratterizzati da flussi di migranti per ragioni economiche, e per costruire una strategia di relazioni finalizzata ad ampliare gli accordi con i paesi di origine degli immigrati, e le alleanze con i principali paesi di accoglienza della Ue sulla base di interessi condivisi.



Anzi, una inutile e irresponsabile sanatoria promossa nel corso della pandemia, l’ampliamento della possibilità di rilasciare a tutto campo i permessi di soggiorno per motivi umanitari anche per le persone prive dei requisiti di protezione internazionale, e gli atteggiamenti ondivaghi sulle modalità di soccorso e di coinvolgimento delle Ong, hanno contribuito a far percepire l’Italia, nei paesi di origine e di transito dei migranti e in quelli aderenti alla Ue, come una sorta di ventre molle per veicolare l’ingresso dei migranti nel continente europeo (aggravata dal fatto che tra il 2014 e il 2016, circa 300mila immigrati irregolari sbarcati in Italia si sono spontaneamente trasferiti in altri paesi del centro–nord Europa, che alla fine hanno accolto più profughi rispetto all’Italia).

Questi equivoci sono il frutto di diversi errori di valutazione. Il primo è derivante da un deficit di analisi delle caratteristiche dei flussi irregolari, troppo genericamente identificati con le persone costrette a fuggire da scenari bellici, o in condizioni di indigenza assoluta provenienti da paesi poveri. Bastava una semplice analisi dei paesi di provenienza dei migranti effettivamente sbarcati in Italia, per la gran parte cingalesi, pakistani, egiziani, magrebini e del centro Africa per comprendere che questa lettura non era fondata.

Giova evidenziare infatti come la progressiva riduzione di questi flussi, in atto dal 2017, sia avvenuta a seguito delle intese i paesi in via di sviluppo centro africani, promosse dal ministro Minniti d’intesa con il governo francese. Una strategia che ha consentito di contenere i flussi verso la Libia, contrastata da buona parte della sinistra italiana, indebolita dalle successive polemiche alimentate dal governo giallo verde nei confronti di quello francese, e naufragata per la velleitaria ricerca di alleanze con i paesi dell’est Europa del blocco Visegrad, portata avanti dal ministro dell’interno Salvini. E con essa la possibilità di costruire una iniziativa europea comune sul versante dei rapporti con la Libia, che rimane il fronte più scoperto per l’evidente debolezza degli equilibri politici locali e per la complicità delle varie fazioni politiche con i trafficanti di esseri umani.

Il secondo grave errore è stato, e continua ad essere, quello di identificare l’insieme delle politiche per l’immigrazione con quelle legate all’accoglienza dei profughi. Secondo una narrazione prevalente questi flussi di migranti sono inevitabili, e difficilmente governabili, perché rappresentano nel contempo una via di fuga per l’aumento esponenziale della popolazione nei paesi africani particolarmente poveri, e una compensazione per il decremento demografico delle popolazioni autoctone dei paesi europei. Nella realtà la stragrande parte dei flussi migratori viene alimentata dai paesi in via di sviluppo, dalla possibilità di una parte della popolazione di sostenere l’onere del progetto migratorio, di solito equivalente a due tre anni del reddito annuale medio, e di poter usufruire di punti di riferimento nei paesi di accoglienza rappresentati dalle popolazione di origine già integrate nei paesi di accoglienza.

Per questi ultimi la sostenibilità della accoglienza dei migranti economici rimane condizionata dalla possibilità di offrire un lavoro relativamente stabile agli immigrati.

La facoltà di programmare i nuovi flussi di ingresso per motivi di lavoro sulla base dei fabbisogni del mercato del lavoro, che rimane nelle prerogative degli Stati nazionali, viene infatti distinta dagli obblighi e dai doveri di questi paesi di soccorrere ed accogliere le persone fuoriuscite da quelli di origine per motivi di persecuzione, discriminazione e conflitti bellici, prevista dai trattati sottoscritti a livello internazionale Ginevra e New York) e da quelli europei (Dublino) finalizzati alla attuazione di quelli internazionali anche per la finalità di regolare la circolazione dei profughi in ambito europeo.

Una politica esclusivamente basata sull’accoglienza, finisce inevitabilmente per costituire una sorta di assicurazione per i trafficanti di persone, in particolare per quelli che imbarcano persone, donne e bambini compresi, su mezzi inadeguati, anche per la cinica finalità di generare una reazione delle opinioni pubbliche, e i comportamenti delle autorità dei paesi di accoglienza di fronte alle tragedie del mare (infatti nelle statistiche degli anni recenti il numero dei morti e dei dispersi nel Mediterraneo aumenta in parallelo con quello delle persone salvate).

Questi equivoci di fondo, aggravati dalla pesante condizione occupazionale del nostro mercato del lavoro e dall’impoverimento di buona parte della popolazione immigrata regolarmente residente in Italia più volte sottolineato dall’Istat, continuano a pesare come macigni sulla possibilità di impostare una ragionevole politica nazionale per la gestione dei flussi irregolari di ingresso, che non può prescindere dalla rigorosa applicazione dei criteri di rilascio dei permessi di soggiorno per motivi di protezione internazionale, e da procedure rapide di accertamento dei requisiti per evitare la cronicizzazione delle presenze di immigrati irregolari.

Questa rimane una condizione indispensabile per rivendicare un aumento del peso e della autorevolezza delle istituzioni europee nella gestione attiva degli interventi. Nonostante le difficoltà, esiste una forte convergenza tra i paesi aderenti sulla opportunità di potenziare il ruolo attivo della Commissione europea, e dei fondi europei di sostegno, per: la promozione delle intese multilaterali tra i paesi di accoglienza e quelli di origine per i programmi di cooperazione per lo sviluppo locale; il contrasto immigrazione irregolare e il rimpatrio dei migranti privi dei requisiti di protezione; la costruzione di una polizia di frontiera europea volta a sostenere i paesi congiunturalmente più esposti ai flussi di ingresso irregolari. Le riserve poste dalla maggioranza degli paesi della Ue sulla possibilità di adottare dei criteri di distribuzione automatica, sono derivanti dalla preoccupazione che un meccanismo di questo genere finisca per incentivare ulteriori flussi di ingresso irregolari, in particolare se non preceduta da una rigorosa verifica dei requisiti di protezione dei singoli immigrati. Un aspetto della riforma che non deve essere sopravvalutato soprattutto se compensato da accordi di ripartizione volontaria tra i principali paesi europei, sostenuti dalla utilizzo dei fondi comunitari.

Questo passaggio per l’Italia coincide di fatto con l’esaurimento del ciclo migratorio iniziato alla fine degli anni 90, e all’esigenza di ripensare le nostre politiche migratorie, e l’attrattività del nostro mercato del lavoro, nell’ambito della espansione della mobilità internazionale del lavoro destinata ad influenzare i comportamenti delle giovani generazioni. Tema assai distante dai luoghi comuni che affollano ancora il dibattito italiano in materia di immigrazione.

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