Solo apparentemente il contenzioso in corso tra l’apparato statale e la Regione Sicilia riguarda la gestione dei migranti. In questo articolo si propone di notare come il suddetto contenzioso – ordinanza contingibile e urgente del presidente della Regione Siciliana n. 33 del 22 agosto 2020; ricorso n. 1259 del 2020, proposto da presidenza del Consiglio dei ministri e ministero dell’Interno; decreto del Tar Sicilia n. 842 del 27 agosto 2020 – esprima, in particolare, una importante dialettica tra un modello cognitivo ed organizzativo – quello dell’apparato centrale – di tipo burocratico, orientato alla coerenza interna dei “protocolli”, e un modello cognitivo ed organizzativo orientato ai fatti, alle persone e alle comunità.



La recente disputa curata dal Tar Sicilia, si invita a riflettere, non riguarda, dunque, due diversi modi – quello dello Stato centrale e quello della Regione Sicilia – di interpretare il medesimo oggetto. No. La disputa riguarda invece due diversi oggetti: da un lato, la “situazione fattuale”, quella che hanno osservato e trattato l’ente “Regione Sicilia” e il suo presidente alla vigilia dell’adozione dell’ordinanza  n. 33 del 22 agosto 2020; dall’altro, il “documento” costituito dalla suddetta ordinanza.



Si badi: né i ricorrenti (presidenza del Consiglio dei ministri e ministero dell’Interno) né il Tar Sicilia hanno rivolto alcuna attenzione alla situazione fattuale sottostante l’ordinanza n. 33 del presidente della Regione Sicilia. D’altronde, nella cultura organizzativa dell’apparato statale – ministeri, tribunali – quel che conta sono gli atti formali, non la realtà e non la vita della comunità.

L’art. 95 comma 2 della Costituzione dispone: “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Sono gli “atti”, dunque, e il loro rapporto con altri atti, a costituire il focus del pianeta “apparato statale”. Ed è infatti esclusivamente sull’atto “ordinanza n. 33” che si è concentrato il magistrato del Tar Sicilia il 27 agosto 2020. Nel redigere l’ordinanza 33 il presidente della Regione Sicilia aveva osservato la realtà dei siciliani e, in accordo con la propria interpretazione delle responsabilità incorporate nella figura del presidente della Regione Sicilia, aveva avvertito il dovere di fornire, alla realtà stessa, una risposta volta a migliorare le condizioni della comunità siciliana.



Si potrebbe aggiungere – ma solo nel pianeta della realtà reale, non in quella dell’apparato statale – che nell’emettere l’ordinanza 33 il presidente della Regione Sicilia ha anche tutelato, presso i siciliani e presso gli italiani tutti, la credibilità complessiva delle istituzioni della Repubblica, pesantemente incise dall’eclatante contraddizione – evidentissima a chiunque – tra le precauzioni anti-Covid imposte ai siciliani e i comportamenti invece consentiti ai migranti. 

Nel redigere il decreto 842, al contrario, il Tribunale osservava unicamente il testo dell’ordinanza 33 e, slegando dalla realtà tale documento, unicamente si preoccupava di valutare se tale “atto” fosse, o meno, compatibile con altri “atti” (Costituzione, leggi, norme sul procedimento amministrativo, etc.).

Se, per sua struttura, l’apparato dello Stato, e quindi il Tar Sicilia, non osserva per niente la realtà, perché tratta unicamente di “atti”, ecco che non ha senso sorprendersi del fatto che, ad avviso di tale apparato, gli atti, per essere validi, debbano contenere espressamente, al loro interno, anche quanto al mondo intero è ben noto: indicativa, in questo senso, una delle motivazioni che il Tar adduce, nel decreto 842, per annullare l’ordinanza 33: “in definitiva, l’esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale, quale conseguenza del fenomeno migratorio, che, con il provvedimento impugnato, tra l’altro, si intende regolare, appare meramente enunciata, senza che risulti essere sorretta da un’adeguata e rigorosa istruttoria”.

Con il suo decreto 842, dunque, il Tar Sicilia, in coerenza con il suo dna, si concentra sull’atto (ordinanza 33) e valuta non della sua efficacia sostanziale ma solo della sua perfezione formale. Se l’atto è formalmente imperfetto – e se, ad esempio, nell’atto, il rischio sanitario non è adeguatamente descritto e non è ricordato che l’assembramento di centinaia di persone è pericoloso ai fini Covid – allora il TAR, che è stato concepito per vivere nel regno del perfezionismo formale e fuori dalle situazioni reali, annulla l’atto, senza preoccuparsi – non è programmato per farlo – delle conseguenze pratiche di tale annullamento.

Per intenderci: se dall’annullamento dell’ordinanza 33 scaturissero, nei prossimi giorni, migliaia di morti in Sicilia a causa di un’esplosione di casi Covid, né al Tar né ai soggetti ricorrenti (presidenza del Consiglio, ministero dell’Interno) potrebbe essere imputata – nella visione del mondo che ispira l’organizzazione del pianeta “apparato statale” – alcuna responsabilità, in quanto, per loro “statuto”, sia l’uno (Tar) che gli altri (presidenza del Consiglio, ministero dell’Interno) non hanno alcuna responsabilità circa i fatti reali e, nella fattispecie, non hanno fatto altro che svolgere, in sede di contenzioso, la loro funzione, verificando la compatibilità formale di un atto (ordinanza 33) con altri atti (norme).

In questa strutturale e totale dissonanza cognitiva – “responsabilità dei fatti” versus “responsabilità degli atti” – tra Regioni e apparato centrale, si gioca molta della storia passata, presente e futura dell’Italia. Se alla pubblica amministrazione diffusamente si attribuisce – si ritiene di poter qui aggiungere: fondatamente – un approccio di tipo burocratico, legato esclusivamente agli atti formali e insensibile alle esigenze reali, ecco che il contenzioso Stato-Sicilia consente, finalmente, e a tutti, di vedere con chiarezza la natura delle posizioni ufficiali in campo.

In poche settimane, l’emergenza Covid ha generato diverse occasioni di confronto tra le due visioni, generando peraltro un’insolita celerità nella reazione degli apparati dello Stato (si pensi all’annullamento governativo dell’ordinanza n. 105 del 5 aprile 2020 del sindaco di Messina che istituiva l’obbligo di registrazione on line dei passeggeri diretti in Sicilia; si pensi alla sentenza n. 841 del 9 maggio 2020 con il quale il Tar Calabria annullava l’ordinanza n. 37 del 29 aprile 2020 con la quale la presidente della Regione Calabria aveva anticipato di alcuni giorni, in Calabria, l’apertura dei servizi al tavolo dei bar all’aperto).

Come evolverà, nei prossimi mesi e anni, la dialettica atti vs realtà attraverso il confronto Stato-Regioni? Continuerà, la Repubblica, a dividere l’Italia per “partizioni artificiali” (sanità, immigrazione, affari esteri, ordine pubblico, etc.), oppure si comincerà a guardare ai territori, nella loro inestricabile realtà complessiva? In che senso sarà interpretata, in concreto – in Lombardia, in Veneto, in Campania, in Sicilia: insomma, in Italia – l’autonomia  delle Regioni, delle Province e dei Comuni, introdotta nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione (art. 114)? Fino a quando si tenterà di conservare esclusivamente in capo ad uno dei due attori – l’apparato statale – la formazione culturale di coloro che sono chiamati a valutare (corti, magistrati) dei conflitti tra le due visioni (atti vs realtà) e tra i due giocatori (apparato statale vs enti del territorio)?