L’ondata immigratoria clandestina che sta flagellando il Mediterraneo con il suo corteo di morti e di dispersi non ha nulla di fisiologico, né può essere ricondotta alle storiche correnti immigratorie che l’hanno preceduta nel corso del Novecento.

Ciò avviene in primo luogo per le dimensioni abnormi che la caratterizzano e la conseguente incapacità di qualsiasi mercato del lavoro legale di assorbirla in maniera minimamente dignitosa, senza abbandonarla nel sottobosco delle economie di riparo, dominate dall’evasione fiscale, o peggio in quello dell’economia illegale. Quella, per intenderci, dell’universo florido della droga dove, secondo l’Istat, sono otto milioni gli italiani irresponsabili e umanamente falliti che fanno uso di sostanze stupefacenti, convertendo la loro indifferenza civile in idiotismo generalizzato.



Ma soprattutto – ed è il vero aspetto che i politici ed i loro consulenti non dovrebbero mai dimenticare – a differenza delle emigrazioni che, da fine Ottocento fino agli anni Sessanta del secolo scorso hanno caratterizzato anche l’Italia, gli Stati industrializzati non hanno minimamente bisogno di una simile ondata. Non c’è più la siderurgia rampante alla ricerca di manodopera degli anni cinquanta, né l’industria manifatturiera degli anni sessanta legata alle catene di montaggio. Se la prima è ridotta al lumicino, scavalcata dai nuovi imperi produttivi emergenti ad Est, la seconda, attraverso la tecnologia, ha ridotto da decenni e in modo esponenziale il suo bisogno di forza lavoro. Quanto ai servizi alle famiglie ed a comparti più elementari come l’edilizia o la ristorazione, questi sono già abbondantemente serviti dall’immigrazione regolare, oltre che dall’ondata crescente degli italiani senza lavoro.



Se le ondate immigratorie clandestine proseguono, indipendentemente dalle possibilità reali di occupazione, ciò si produce in relazione a due fattori principali.

Il primo di questi è costituito dall’assoluto livello di violenza e di irrintracciabilità dei diritti umani caratterizzanti le nazioni di partenza. Il caso di Giulio Regeni non è che la punta dell’iceberg, mentre i massacri nel corno d’Africa, dove si osa sparare allegramente su donne in fuga e fucilare ragazze con i relativi bambini sulle spalle – basta avere il coraggio di guardare l’inguardabile, reperibile su internet per prenderne atto – ne costituiscono la base. È la violenza esistente in Africa e l’assoluto disprezzo dei diritti della donna e del bambino presenti nella cultura di paesi sempre sull’orlo della guerra civile, ad alimentare la disperazione dei più giovani ed a fare della fuga l’unica via d’uscita.



Il secondo di questi fattori è invece costituito dalle generose politiche assistenziali che caratterizzano i paesi del Nord Europa. Gran parte di questa popolazione, affamata di vita decente, preferisce spesso ragionevolmente abbandonare le nostre strutture di assistenza per addensarsi ai valichi del Brennero e di Ventimiglia, arrivando addirittura ad attraversare le Alpi con le tragedie che inevitabilmente ne conseguono, proprio per dirigersi verso le aree di politica assistenziale più solida, al fine di potere ragionevolmente intrecciare l’assistenza con tutte le attività di riparo possibili che si sviluppano negli interstizi dei paesi sviluppati. È abbastanza logico che, per tale strada, i governi dei rispettivi paesi dal welfare generoso, blocchino compagini di immigrati che non potrebbero inserire da nessuna parte, ma solo assistere.

Quanto alla nostra società italiana, questa ostenta un benessere e un’opulenza che, in molti casi, riesce a possedere solo perché sostenuta dalla retrovia delle famiglie e dei loro risparmi e riesce ad ostentare benessere solo perché accampata sull’altopiano dei beni accumulato dai padri. I giovani immigrati cascano così nella trappola di una società che apparentemente ne ha per tutti, quando in realtà ne ha per molti di meno di quanto sembri.

Così, se per i più fortunati tra gli immigrati ci sono i mestieri che gli italiani non vogliono più fare da anni: dalle badanti full time ai guardiani notturni, dagli addetti agli autolavaggi agli aiuti ai banchi di vendita degli ambulanti; per la larga maggioranza c’è la strada dei campi agricoli con alloggi di fortuna, la miseria dei subappalti, la mendicità: altrettante aree sulle quali si profila l’ombra lunga dei racket che controllano le diverse filiere. Fuori da quest’ultima opportunità c’è il traffico di droga e la prostituzione, la cui agenzia di reclutamento – come è noto – è sempre aperta. In pratica: gli immigrati costituiscono un vero e proprio sottoproletariato che riprende forma nella nostra società dell’opulenza apparente.

È questa l’accoglienza? Cosa possiamo fare per migliorare l’accoglienza? Cosa accadrà quando, con la fine del blocco dei licenziamenti, in molte aziende la luce non si riaccenderà? Cosa accadrà quando, come già sta avvenendo al Nord, dove gli operai, pur di non stare inoccupati, vanno a lavorare nei campi; oppure a Napoli, dove tra i rider ci sono cinquantenni, padri di famiglia, che dopo anni di mancata occupazione non hanno altra opportunità che quella di salire su uno scooter per fare delle consegne? Fuor di metafora: cosa accadrà quando l’ondata dei disoccupati italiani, con la fine del blocco dei licenziamenti, invadendo tra pochi mesi gli stessi spazi lavorativi dove si addensano gli immigrati entrerà in conflitto con quest’ultimi, per aggiudicarsi quel poco che resta? Cosa accadrà quando, con la globalizzazione, anche le poche fabbriche del Nordafrica specializzate nel tessile, travolte dalla produzione cinese, saranno costrette a chiudere ed agli immigrati attuali se ne aggiungeranno di nuovi?

La politica, quella vera, non è fatta di retorica, ma di previsioni lungimiranti e di senso di responsabilità. Se da un lato è indubbio che non si possono lasciare gli immigrati affogare tra le onde (mi rifiuto di credere che esista un soggetto dotato di ragione che possa realmente pensarlo) è importante predisporre un vasto programma di rientri, formando e trasmettendo competenze, come già stanno facendo associazioni benemerite che meritano di essere consistentemente aiutate. Ed ovviamente un simile piano non è nemmeno pensabile se le cifre degli sbarchi non vengono consistentemente ridotte, suonando il campanello d’allarme per gli altri paesi europei. Così come non è pensabile che possa realizzarsi se non vengono prese adeguate e definitive contromisure in ambito internazionale per tagliare alla base il delirio delle guerre civili e delle lotte tribali che ancora flagella vaste aree dell’Africa.

In ogni caso occorre comunque togliersi dalla testa l’idea che simili ondate rispondano ad una normale e fisiologica transizione verso una presunta società globale. Nulla di più irresponsabile dell’ignorare il dramma che si sta attualmente svolgendo sotto i nostri occhi, alimentando l’immaginario dell’accoglienza che si compiace del tetto che offre e delle mense che fornisce, come se potessero bastare a fronteggiare delle esigenze umane di ben più vaste e legittime attese.

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