2.400 arrivi a Lampedusa nelle ultime 48 ore. Un’impennata che il governo non si aspettava, soprattutto dopo la visita di Draghi in Libia. E invece il nostro paese sembra avere sottovalutato la complessità del quadro. Diversi fattori si sommano: la debolezza del governo Conte 2 e l’imbarazzante principio della ripartizione volontaria stabilito al vertice di Malta 2019; il magma criminale dell’Africa subsahariana, che continua ad approvvigionare le coste libiche di clandestini pronti a salpare; e la proiezione geopolitica della Turchia. Solo in questo contesto si possono comprendere le aggressioni ai nostri pescherecci, ultimo caso quello di ieri, con la motonave Giacalone di Mazara aggredita e speronata da barche turche nelle acque di Cipro. Non è la Turchia a manovrare i rubinetti delle partenze, dice Michela Mercuri, docente di storia contemporanea dei paesi mediterranei nell’Università di Macerata ed esperta di Libia. La sfida di Erdogan all’Italia è un’altra.



Come si spiega questo incremento negli sbarchi?

Non sono solo le condizioni del mare ad agevolare le partenze. Poiché negli anni scorsi non avvenivano in questa misura, la spiegazione va cercata in quello che sta succedendo all’interno della Libia.

Il nuovo governo provvisorio è in affanno?

Il premier Dbeibah non è in grado di gestire le milizie. Molte puntano a spartirsi i proventi del petrolio promessi da Dbeibah e cercano di accreditarsi all’interno del paese in vista delle prossime elezioni. E fanno valere il loro potere di ricatto agevolando le partenze.



Secondo alcune stime, in Libia ci sarebbero 900mila migranti provenienti da altri paesi africani.

Molte organizzazioni jihadiste e criminali si stanno riorganizzando non tanto in Libia, quanto nel Sahel. Quello dei clandestini è un business vitale per loro e ne stanno facendo partire il più possibile.

Il governo Draghi fa bene a puntare sulla redistribuzione europea?

Se vuol dire, come ha fatto Lamorgese, invocare gli accordi di Malta del 2019, ossia la redistribuzione su base volontaria, non può funzionare. Quel summit è stato il più grande fallimento dell’Ue in tema migratorio. Non possono essere i partner europei a scegliere se e quando prendere gli immigrati.



Che cosa serve?

Ci vuole un regolamento europeo che sanzioni gli Stati dell’Ue che si rifiutano di farlo. L’Ue è fatta di regolamenti, non di volontarietà. Malta, anzi, è stata per molti Paesi Ue l’occasione di fare un facile scaricabarile.

Secondo un retroscena di Dagospia, Draghi avrebbe manifestato disappunto per la gestione Lamorgese di questo dossier esplosivo…

La Lamorgese è stata ministro di un governo (Conte 2, ndr) più debole in Europa rispetto a quello attuale guidato da Draghi. Scontiamo il fatto di non aver potuto battere i pugni sui tavoli europei per trovare un accordo e un regolamento su redistribuzione, ricollocamenti e rimpatri.

Salvatore Martello (Pd), sindaco di Lampedusa, ha detto che il fenomeno va governato e che l’errore italiano è stato quello di non firmare il Global compact of migration di Marrakesh. È così?

No. Il problema migratorio va oltre il Global Compact, che pure aveva delle ottime intenzioni. Nasce dalla criminalità organizzata che si sta espandendo nel Sahel e che ha bisogno del traffico di migranti per espandersi.

Fratelli d’Italia propone come in passato un blocco navale. Funzionerebbe?

Ritengo il blocco navale per lo più una provocazione anche giusta, ma che se attuato potrebbe rivelarsi per l’Italia perfino controproducente.

Per quale motivo?

Il blocco navale implica il consenso dello Stato con cui si concorda il blocco, in questo caso la Libia. Difficilmente il governo provvisorio lo darebbe, e se lo facesse potrebbe non essere in grado di farlo rispettare. In terzo luogo, potrebbe dare luogo ad una crisi diplomatica tra l’Italia e un paese per noi nevralgico come la Libia. Infine la Turchia, che ha il controllo di buona parte delle coste libiche, non lo accetterebbe.

Perché la definisce una giusta provocazione?

Primo, perché punta il dito contro l’inerzia totale dell’Ue. Secondo, perché non esiste più il mare normato dalla Convenzione di Montego Bay. Oggi tutti si sentono in diritto di fare quello che vogliono: la Turchia ha firmato una Zee (Zona economica esclusiva) con la Libia in barba a qualunque diritto internazionale, Francia e Gran Bretagna si sono scontrate nella Manica sui diritti di pesca. Si potrebbe continuare.

A proposito della Turchia. Qual è il suo obiettivo?

Ha lanciato un guanto di sfida all’Italia che non riguarda solo la pesca, ma tutto quello che c’è dentro e sotto l’acqua: gasdotti e giacimenti offshore.

C’è un nesso politico tra l’aggressione al peschereccio Giacalone, speronato da barche turche nelle acque di Cipro, e l’aggressione alla nave Aliseo di settimana scorsa?

Un nesso politico c’è ed è proprio questa guerra del mare. Non possiamo limitarci al fatto che Gheddafi nel 2005 ha ampliato di ulteriori 62 miglia la zona di pesca esclusiva libica. È una guerra che interessa tutte le risorse marittime.

Quanto alla pesca?

Non basterà dire ai pescatori di Mazara di non pescare più il gambero rosso, né di pescarlo con la guardia della marina militare. Penso che converrebbe trovare accordi tra imprese del settore ittico dei vari paesi interessati.

Prima ha parlato di inerzia totale dell’Ue. A che cosa si riferiva?

Il problema del mare sfugge completamente alla regolazione dell’Unione Europea. Prevedo che sarà oggetto di trattazioni bilaterali: ogni Stato dovrà accordarsi per zone economiche di pesca, zone economiche esclusive e quanto altro.

Quanto di quello che accade in Libia va ricondotto all’interferenza geopolitica della Turchia?

La Turchia ha investito molto in Libia, fornendo a suo tempo a Sarraj uomini e mezzi in cambio del controllo di punti strategici in terra e sul mare; su tutti, la concessione del porto di Misurata. Questa è la partita principale che vede la Turchia contrapposta all’Italia e forse non lo abbiamo ancora compreso.

Che cosa significa? Eppure il contrasto è evidente.

Noi pensiamo a questa competizione innanzitutto in termini di ricostruzione di strade, aeroporti e relative partnership, ma la partita più importante riguarda le acque e le risorse marittime.

Alla luce di tutto questo, è stato incauto Draghi nel definire Erdogan “dittatore”?

Personalmente non credo che sia stata una mossa azzeccata, anche per la statura internazionale dello stesso Draghi. Però ritengo che non sia dirimente nel cambiare i rapporti tra Italia e Turchia.

La Turchia potrebbe avere un ruolo nella gestione della valvola migratoria?

Ritengo che sia del tutto marginale. Le partenze sono una questione prevalentemente interna alle dinamiche libiche e a quelle relative ai trafficanti del Sahel. Erdogan punta molto di più allo sfruttamento delle acque territoriali libiche occidentali, che considera di sua proprietà. Qui potrebbe esserci la longa manus della Turchia su alcune frange della guardia costiera che si sono dimostrate più aggressive nei confronti dell’Italia.

Che cosa deve fare il nostro governo?

Potrebbe rileggersi Aldo Moro, che il 24 settembre 1969 disse: “l’Italia, per la sua qualità di paese interamente mediterraneo, solidamente inserito nella comunità occidentale, può meglio essere interprete delle esigenze proprie degli Stati rivieraschi del mare che ci circonda (…) a tal fine, dobbiamo agire sia sul piano bilaterale, sia su quello comunitario (…)”. E ancora: “l’Italia, coperta dall’Alleanza atlantica per quanto riguarda alla sua sicurezza, è chiamata a svolgere, non solo nel proprio interesse, una politica animata da rispetto, spirito di collaborazione e vasta apertura verso tutti i paesi”.

Ma il mondo non è più quello di Moro.

Se avremo la capacità di perseguire il nostro interesse nazionale in un contesto multilaterale, per la nostra posizione geostrategica potremmo avere un ruolo importante. Se invece continuiamo a fare ciò che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni dopo le primavere arabe, rimarremo confinati in un angolo a guardare il gioco degli altri.

(Federico Ferraù) 

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