Natale Forlani, ieri sul Sussidiario, ha ben spiegato come neppure una riforma degli Accordi di Dublino-3 – comunque non immaginabile a breve – potrebbe garantire all’Italia una solidarietà nuova e più concreta da parte dei partner Ue nella gestione dei flussi migratori dall’Africa. Per questo Forlani – in vista del cambio di rotta annunciato dal nuovo governo sul “fronte dei porti” – si è visto costretto a rivolgere uno sguardo pensoso al passato recente: a tutte le iniziative “scellerate” adottate negli ultimi cinque anni nel Mediterraneo. Compresa l’operazione Mare Nostrum, il piano di salvataggio “unilaterale” attivato nel 2014 in acque internazionali “ignorando colpevolmente i rapporti dei servizi segreti che evidenziavano l’attività di riorganizzazione delle tratte di migranti economici dai paesi centrafricani, in conseguenza della dissoluzione dello Stato libico”.



È un realismo in evidente contrasto con i riflessi mediatici del primo incontro fra il premier Giuseppe Conte (in divisa “giallorossa”) con la nuova presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen (la cui nomina è stata ratificata dall’euro-parlamento grazie ai voti decisivi di M5s, negoziati dallo stesso Conte, allora premier gialloverde). L’ottimismo ufficiale è stato enfatizzato dall’annuncio di un summit imminente fra Conte e il presidente francese Emmanuel Macron per delineare “nuove intese” sui migranti. Il 23 settembre, intanto, è fissato a Malta un mini-summit Ue sul tema, con la partecipazione di Italia, Francia, Germania e Finlandia (presidente di turno dell’Unione). Il vertice a 5 segnerà l’esordio del nuovo ministro dell’Interno italiano, Luciana Lamorgese. Che a una settimana dal giuramento, è già finita nel mirino di due suoi partiti di maggioranza (Pd e Leu) perché sta tenendo i porti chiusi alle navi delle Ong, sulla base delle direttive del predecessore Matteo Salvini. La riapertura immediata e incondizionata dei confini italiani ai migranti è uno degli affidavit attraverso i quali il Conte-2 si è guadagnato endorsement internazionali come quello dalla Santa Sede.



Un rapido contraccolpo di scetticismo (“Migranti, l’Europa non ci sente”, ha titolato ieri Repubblica) sembra peraltro avere alla radice anche una prima ipotesi di merito avanzata da von der Leyen durante il vertice con Conte. A Bruxelles sarebbe infatti allo studio un sistema di “penalità finanziarie” per quei Paesi che venissero meno agli impegni riguardanti una ripartizione solidale dei migranti entro i confini europei. In attesa di dettagli, è uno scenario che merita già qualche riflessione.

“Penalità finanziarie” per un Paese che rifiutasse di accogliere migranti sbarcati in Italia, può prefigurare in concreto che, ad esempio, il lindo e protetto Lussemburgo di Jean-Claude Juncker e delle mille casseforti bancarie possa pagare l’Italia per tenere a casa sua i migranti sbarcati in Sicilia e Calabria. Non sarebbe uno schema inedito: è lo stesso in base al quale la Ue già nel 2016 ha pagato 3 miliardi di euro la Turchia di Erdogan – in involuzione illiberale – per fare da filtro-deposito per i flussi provenienti dal Medio Oriente. È stata del resto la “rotta balcanica” – poi chiusa da quell’accordo voluto in fretta da Angela Merkel – a produrre la svolta-Orbán in Ungheria, la svolta-Kurz in Austria e a scatenare i riflessi xenofobi in Germania, alla radice del progressivo “crepuscolo della Cancelliera”.



Ma non sono mancate suggestioni ulteriori sullo stesso format: ad esempio che un paese come l’Albania possa diventare un hub di arrivo pilotato di migranti da varie partenze nordafricane, in cambio di aiuti finanziari ad hoc da parte della Ue e di un’accelerazione del percorso di integrazione di Tirana nell’Unione (nei primi anni 90 furono le coste pugliesi la spiaggia dei migranti albanesi e – per la verità – lo sviluppo post-comunista del Paese fianco a fianco dell’Italia è stato un caso di successo. Certo è arduo immaginarne una replica fuori dai confini europei, nella Libia dilaniata dalle milizie filoislamiche e dagli interessi in conflitto dei Paesi che vollero la guerra del 2011).

Comunque, in sintesi: miliardi di euro all’Italia – a un governo tassativamente ad excludendum verso la Lega – in cambio dell’assunzione della gestione piena dell’’emergenza migranti. Neppure questa sarebbe una novità, anzi. Emma Bonino – il ministro degli Esteri che firmò Dublino-3 – ha più volte affermato che l’intesa che l’Italia diventasse l’hotspot di tutti gli sbarchi (con la chiusura dei confini spagnoli, francesi, austriaci, etc.) avrebbe previsto in contropartita una flessibilità discrezionale sui conti italiani che la Ue avrebbe accordato negli anni successivi. Bonino non è mai stata smentita, a parte qualche battuta polemica da parte di Matteo Renzi, premier Pd dal 2014 al 2016. È un fatto che la durezza riservata dalla commissione Juncker al governo Conte-1 sul piano finanziario (un no intrattabile al deficit al 2,4% nella manovra 2019 e procedura di infrazione sul debito aperta dalla commissione uscente tre giorni dopo il voto europeo di maggio) non trova risconti neppure minimi nel quinquennio dei governi a guida Pd.    

Ora l’“Europa di Orsola” sembra riproporre al Conte-2 – seppur ancora fra le righe – lo stesso “scambio Bonino” (la senatrice radicale, peraltro, ha polemicamente negato la sua fiducia al Conte-2, pur essendo stata eletta in cartello elettorale con il Pd). Il contesto tuttavia, è nel frattempo molto cambiato.

Non è un mistero che Francia e Germania abbiano già concordato un alleggerimento dei parametri di Maastricht per consentire anzitutto ai rispettivi Paesi di varare politiche fiscali anti-recessive. Sia in Francia che in Germania la situazione sociale è da tempo in forte peggioramento: gilets jaunes Oltralpe e destre xenofobe in Germania, soprattutto all’Est, hanno prodotto tensioni crescenti all’ordine pubblico, sconosciute in Italia nei 14 mesi del governo giallo-verde. Per questo Berlino e Parigi hanno deciso principalmente a proprio beneficio una deroga all’euro-austerity finora imposta agli altri Paesi dell’Unione, anzitutto all’Italia.

La Grande Deroga – che porterà formalmente la firma del nuovo commissario Ue agli Affari Economici, l’italiano Paolo Gentiloni – è già “narrata” in termini politico-economici come Grande Svolta Verde: decine di miliardi di euro verrebbero stanziati in grandi piani di re-infrastrutturazione digitale ed ecosostenibile dei sistemi-Paese. Anche l’Italia avrebbe la sua parte: è sulla Grande Deroga che poggiano le attese di praticabilità di un deficit al 3% nella manovra 2020, nonostante i fondamentali italiani siano peggiori di quelli che sostenevano la proposta di manovra gialloverde al 2,4% dodici mesi fa, mentre lo stesso Conte-2 sembra per ora ignorare ogni ipotesi taglia-debito, come aveva fatto il Conte-1.

Miliardi di flessibilità da spendere sul filo di un generalissimo mantra verde. Ma negli abbozzi dei nuovi tecnocrati di Bruxelles i miliardi riservati all’Italia coincidono forse con le “penalità” con cui i grandi paesi europei vorrebbero sbarazzarsi per cassa del fastidioso dossier-migranti, riaffidandolo a Roma? E il Conte-2 come intenderebbe spendere questa particolare “flessibilità”? Per rimettere in mare, anzitutto, la flotta di “Mare Nostrum” , placando i malumori della Forze armate che soffiavano sul collo della ministra-capitana Elisabetta Trenta? Per strutturare Lampedusa e dintorni come vero terminal offshore per le navi delle Ong tedesche o francesi? Per consentire alla capitana Carola Rackete di stabilire in Italia il proprio ufficio di presidente dell’associazione gestori del traffico di migranti economici dall’Africa? Quei miliardi finirebbero in rivoli a piè di lista a una galassia di Ong italiane vecchie e nuove per gestire l’accoglienza?

Sono domande cui il governo non può non rispondere quanto prima, in modo completo e dettagliato, come si conviene alla trasparenza democratica di una repubblica sovrana e parlamentare come l’Italia, nell’Europa unita “di De Gasperi”. Allo statista trentino riuscì di avviare in modo efficace la ricostruzione istituzionale, economica e sociale di un paese distrutto dalla guerra. Lo fece appoggiandosi al piano Marshall e gettando le basi dei Trattati di Roma del 1957. l’Italia può solo augurarsi che il Conte-2 sappia quanto meno seguire quella bussola. Nulla vieta all’esecutivo “giallorosso”, sulla carta, di ri-accollarsi “per cassa” la gestione principale dell’accoglienza dei migranti. Ma la “cassa”, stavolta, non potrà essere la concessione di una superpotenza vincitrice a un Paese vinto, da sostenere in un globo diviso da muri. Dovrebbe invece essere – la quantità di flessibilità riservata all’Italia – il frutto di un negoziato fra pari in un’Europa senza più muri, aperta sul Mediterraneo perché veramente unita al suo interno. E il governo italiano per primo dovrebbe sentirsi chiamato a dare a questo passaggio il massimo della dignità politica: ad esempio con un grande piano di “infrastrutturazione socio-educativa”, che coinvolga i migranti accolti e i milioni di giovani Neet e disoccupati. Su questo sì che il Conte-2 potrebbe – e dovrebbe – “battere i pugni sul tavolo” in Europa più e meglio di quanto volesse fare il Conte-1 o il mai nato Salvini-1. Non accettando, anzitutto, come fatto compiuto un affitto per Lampedusa e dintorni come porto per le Ong, con il canone fissato a Bruxelles, con il timbro di un commissario italiano. La Sicilia non è Panama e Bruxelles non è Washington.      

PS: Enrico Letta – il premier italiano all’epoca della sigla di Dublino-3 – ha segnalato in tempo reale il suo netto dissenso dalla scelta della nuova commissione Ue di impegnare un commissario a tutela di un non meglio precisato “Stile di vita europeo”. Quella di Letta – oggi direttore di Science Po a Parigi – appare una posizione condivisibile. Il nuovo presidio tecnocratico all’identità europea (fra l’altro con la responsabilità di monitorare e coordinare da  Bruxelles situazioni e azioni sui fronti migratori) nasce in termini almeno linguisticamente equivoci in una governance Ue dichiaratamente votata all’inclusione e alla lotta a ogni residua pretesa di “diversità” sociopolitica. Resta il fatto che agli italiani – segnatamente nell’ultimo mese di agosto e da parte di un ex presidente italiano della Commissione Ue – è stato narrato ogni giorno che “l’Europa democratica di Orsola” era l’unica e obbligata via di fuga e salvezza dall’“Italia illiberale di Matteo”. Già a metà settembre uno dei due, fra Ursula von der Leyen e Romano Prodi, sembra non averla raccontata del tutto giusta. Su tutti i “valori”: monetari e non.