L’emergenza migranti incalza anche il dimissionato “governo dei migliori”, ora in carica per gli affari correnti. “Decine di sbarchi, hotspot al collasso”, titolava ieri Repubblica, denunciando anche “5 morti in mare”. Senza però attribuire responsabilità politiche. L’hotspot è quello di Lampedusa, dove domenica erano accalcate 1.871 persone per 300-350 posti disponibili. Uomini, donne e bambini in condizioni igieniche allarmanti. Oggi il Viminale trasferirà nelle strutture siciliane mille migranti; nel frattempo le Ong, nuovamente in mare, incrementano i recuperi e con essi le partenze. È il punto d’arrivo della gestione Lamorgese, che ha demandato ad ininfluenti accordi europei basati sulla redistribuzione volontaria il governo della pressione migratoria.
Per Gianandrea Gaiani, direttore di AnalisiDifesa, coautore (con G.C. Blangiardo e G. Valditara) di due saggi dedicati all’immigrazione, dev’essere lo Stato a governare i flussi, con una severa politica di respingimenti, tale da scoraggiare il traffico dei clandestini e incanalarlo nelle vie legali. Il resto lo deve fare una politica di accordi strategici con le Nazioni Unite e con i principali Paesi del Mediterraneo. L’Europa? “Protegga le frontiere esterne. Qualunque accordo di redistribuzione rappresenta un autogol strategico, perché incoraggia i trafficanti”.
Lampedusa scoppia, ora è diventato l’“hotspot della vergogna”. Perché?
Succede periodicamente. Su Lampedusa convergono due rotte di immigrazione illegale: una viene dalla Libia, l’altra dalla Tunisia. E quando gli arrivi superano la capacità ricettiva, prima che i nuovi arrivati siano trasferiti in Sicilia e da lì in altre parti d’Italia, il centro va sotto stress. Il problema, semmai, è un altro.
Quale?
I nostri confini marittimi continuano ad essere superati e superabili da chiunque paghi i trafficanti di uomini. L’Italia è rimasto pressoché l’unico Paese nel Mediterraneo a tollerarlo.
Per questo è immigrazione illegale?
Sì, perché è clandestina, fatta di persone che entrano in Italia senza un visto sul passaporto, né un permesso di lavoro o di studio, neppure con i corridoi umanitari gestiti dall’Onu, attraverso i quali l’Italia accoglie profughi da Libano, Siria, Sahel.
Qualcuno ha scritto che i 37mila arrivi di quest’anno non costituiscono affatto un’emergenza, perché la nostra capacità ricettiva è ben superiore.
Se il punto di riferimento sono i flussi del 2015-2017, arrivati a 160mila-180mila sbarchi in un anno, allora i numeri di oggi sono certamente più bassi. Se però guardiamo i 37mila sbarcati ad oggi dal 1° gennaio e li confrontiamo con i 25.500 del 2021, vediamo una certa differenza, ancora più marcata se prendiamo i circa 11mila arrivi tra gennaio e luglio del 2020.
Cosa fa la differenza?
Le scelte politiche. Manca un confronto importante: quello con i primi 7 mesi del 2019, 3.729 arrivi, -80% rispetto allo stesso periodo del 2018 e -96% rispetto al 2017. Un decimo rispetto a quelli di quest’anno.
Erano i mesi di Salvini ministro dell’Interno.
Salvini era al Viminale, c’erano i decreti sicurezza, si ostacolavano le Ong e si scoraggiavano i traffici illegali. Oggi lo fanno con un certo successo Spagna e Grecia. Paesi che hanno visto anche quest’anno un forte calo negli sbarchi.
Sono stati mesi di fortissimo scontro interno politico e mediatico. Salvini è tuttora a processo. Tra l’altro, lei è stato suo consigliere per le politiche di sicurezza nel 2018-19. Non la preoccupa il pensiero di dover assistere nuovamente a tutto questo?
Non sto tanto a discutere la pressione mediatica, perché i giornali rispondono ai loro editori e ai loro lettori, che in molti casi sono sempre di meno. E lo dico con rammarico perché sono giornalista. Ci sono media che fanno politica o che interpretano in modo discutibile la realtà: fa parte del gioco democratico e del libero confronto di opinioni. Mi preoccupa invece molto di più che una parte del Paese non si scandalizzi del fatto che lo Stato abbia abdicato al controllo dei confini, che è una della sue prerogative. Se lasciamo decidere chi possa o meno oltrepassare i nostri confini alle Ong, soggetti privati che rispondono ad altri interessi, e ai trafficanti, vuol dire che lo Stato si arrende e abdica al ruolo di tutelare gli interessi nazionali.
In questi giorni le Ong sono nuovamente in mare. Nulla a che vedere con la recente crisi di governo?
Le vicende politiche dell’Italia, come di altri Paesi di primo approdo dell’immigrazione illegale, vengono monitorate in maniera molto attenta da chi fa business sui flussi. Oltre al giro di affari dei trafficanti c’è anche il business del soccorso e dell’accoglienza: le Ong incassano soldi dai loro donatori e dall’Unione Europea, chi fa accoglienza, come le cooperative e le Caritas, incassano soldi pubblici.
Cosa intende per “monitorare in maniera molto attenta”?
Quando nell’agosto 2019 il governo gialloverde è entrato in crisi, i flussi migratori sono aumentati improvvisamente, al punto che negli ultimi 4 mesi del 2019 gli sbarchi sono stati più del doppio (7.604, ndr) di quelli dei primi 8 mesi dell’anno (3.729, fonte: Viminale). Ma il problema non sono le Ong, che fanno il loro mestiere. Sono organizzazioni private che si sono date uno scopo e lo perseguono in maniera coerente. La cosa inaccettabile, dal mio punto di vista, è che l’Italia sia l’unico Paese che dice di sì ai loro sbarchi.
Cosa dovrebbe fare il prossimo governo?
Impedire l’accesso delle Ong alle acque territoriali italiane. Sbarchino gli immigrati nei porti dei Paesi di cui battono bandiera, o in quelli degli Stati a cui le organizzazioni appartengono. Per quanto riguarda le Ong italiane, devono adeguarsi alle decisioni del governo. Vorrei aggiungere un dato importante.
Prego.
Nel 2019 non abbiamo solo avuto il minor numero di sbarchi illegali degli ultimi anni, ma anche il minor numero di morti lungo la rotta del Mediterraneo centrale.
Negli ultimi tempi c’è stato un notevole incremento dei flussi verso le coste italiane dalla Turchia. Perché?
Succede perché la Grecia respinge i barconi e li rimanda in Turchia, Paese che tra l’altro è considerato sicuro. Allora i trafficanti organizzano barche più grandi in grado di raggiungere direttamente l’Italia, che accoglie chiunque.
Secondo il Viminale, al 25 luglio la classifica delle nazionalità con più arrivi vede in testa la Tunisia (6.731), l’Egitto (6.059) e il Bangladesh (5.893). Come commenta?
Seguono Afghanistan e Siria. In Afghanistan i talebani hanno ripreso il potere con una tale rapidità che a distanza di un anno si può escludere che sia in corso una guerra civile; in Siria la guerra è rimasta solo lungo i confini turchi, soprattutto nella provincia di Idlib. Questo vuol dire che per gli altri Paesi si tratta di migranti economici che arrivano illegalmente. Cercare una vita migliore altrove è legittimo, ma occorre farlo legalmente.
In Libia dove abbiamo sbagliato?
Ce la siamo dimenticata, lasciandola in mano a Russia e Turchia. Dobbiamo fare accordi che contemplino più aiuti alla guardia costiera libica, perché impedisca ai clandestini di salpare e riporti indietro quelli che salpano. Ovviamente non basta. L’Italia ha finanziato per milioni di euro le agenzie dell’Onu, ben presenti in Libia, perché facciano i rimpatri. È la strada maestra.
Non basterà. Siamo l’approdo del Mediterraneo centrale.
Serve una cooperazione sistemica dell’Italia con i Paesi del Mediterraneo. Con la guerra in Ucraina ci siamo rivolti per gli approvvigionamenti di gas all’Algeria? Dobbiamo negoziare accordi che riguardino sì la questione energetica, ma anche quella migratoria. Chi sta sbarcando in Sardegna meridionale parte dall’Algeria. Idem con Egitto e Turchia. In Tunisia la democrazia sta attraversando una fase delicata; la sosteniamo e accogliamo moltissimi lavoratori regolari tunisini, ma quelli irregolari vanno rimpatriati in tempi rapidissimi.
Rimpatri, dunque.
Sì, immediati. Sono l’unico modo per scoraggiare le partenze. Chi pagherebbe migliaia di euro un trafficante, sapendo che una volta sbarcato verrebbe rimpatriato con la prima nave?
Se stiamo subendo un incremento della pressione migratoria, perché non è scattato il piano solidaristico firmato il 10 giugno in Lussemburgo?
Si tratta di un accordo di base, incompiuto, e per di più fondato su meccanismi volontari. In realtà qualunque accordo di redistribuzione risulta tatticamente utile per alleggerire la pressione sui Paesi di primo approdo, ma rappresenta un autogol strategico, perché incoraggia i clandestini a venire in Europa e i trafficanti ad alzare il prezzo, dando loro la possibilità di garantire ai primi che oltre ad arrivare in Europa potrebbero addirittura venire trasferiti in Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, paesi dal welfare più robusto di quello italiano e che costituiscono la meta per molti clandestini.
Ma allora che cosa dovrebbe fare l’Europa?
Difendere i confini esterni, impedendo a chiunque non sia invitato o non sia in regola di oltrepassarli. Se non lo fa, abbiamo già visto cosa succede: ci ritroviamo con i reticolati e i muri sui confini interni europei da parte di chi dice, e giustamente, questa è casa nostra.
Finora non ha citato la Francia.
Vent’anni fa Parigi faceva come noi oggi: porte aperte. Se guardiamo il problema del consolidamento dell’immigrazione musulmana in Francia, vediamo che se 10-15 anni fa avevano il problema delle gang giovanili, oggi ne hanno uno più grave, interi quartieri sottratti al controllo della République. Questo ha indotto il ministro dell’Interno Gérard Collomb (governi Philippe 1 e 2, ndr) a parlare di “territori perduti” della Repubblica e ad individuare almeno una trentina di quartieri da sottoporre a “reconquête républicaine”. Si dovette dimettere lamentando di non essere stato sostenuto fino in fondo. Non facciamo lo stesso errore.
(Federico Ferraù)
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