Nei giorni scorsi è morta Mya Thwate Thwate Kaing, ventenne rimasta ferita dalla polizia a Naypyidaw, prima vittima civile dopo la presa del potere dei militari nel Myanmar. Secondo osservatori internazionali si è davanti a una escalation delle misure repressive nei confronti della popolazione, che continua a scendere in piazza per protestare contro il golpe, tanto che si potrebbe addirittura arrivare a una guerra civile. Intanto aumentano le accuse, molto banali, nei confronti di Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari e vincitrice delle elezioni annullate dai militari.
Secondo Padre Bernardo Cervellera, del Pontifico istituto per le missioni e direttore dell’agenzia di stampa Asia News , “la situazione al momento è di attesa da entrambe le arti. Sia i militari che la popolazione attendono di sapere chi delle due parti verrà sostenuta dalla comunità internazionale, per questo i militari a parte l’episodio della ragazza, non stanno reagendo in modo violento come in passato. Soprattutto si attende una presa di posizione della Cina, da cinquant’anni maggior partner economico del Myanmar, che al momento sta tenendo le distanze anch’essa”.
Prima vittima civile delle manifestazioni contro il golpe militare. Tom Andrews, inviato speciale dell’Onu per il Myanmar, teme che la situazione possa andare sempre più fuori controllo, fino a scatenare una guerra civile. E’ così?
Chi può saperlo. La ragazza deceduta è stata in ospedale tra la vita e la morte per diversi giorni. Credo che in realtà da una parte e dall’altra c’è una attesa per vedere chi sono gli alleati su cui possano contare. La popolazione sta facendo tutti i passi non violenti e anche ironici possibili (la “campagna dell’auto rotta”: le persone hanno fermato le loro auto nelle strade centrali o sui ponti, con il cofano aperto, come se le loro auto fossero in panne per impedire il passaggio dei mezzi dell’esercito, ndr), sanno che se non hanno l’appoggio della comunità internazionale non possono fare passi avanti. Questo appoggio è venuto molto forte dalle Nazioni Unite e anche dall’occidente, poco dal resto dell’Asia.
E i militari?
I militari hanno preso il potere ma va detto che sono molto meno violenti del modo con cui rispondevano nel 2007 e nel 1988, nelle precedenti rivoluzioni popolari.
Questo perché?
Perché anche loro non sono sicuri che la comunità internazionale possa sostenerli e anche i due paesi che sono i più forti alleati economici del Myanmar, Singapore e Cina, non si esprimono chiaramente. La Cina in modo un pochettino più chiaro ha preso le distanze dal golpe, è già qualcosa. Bisognerà vedere come la comunità internazionale si muove. Il paese è molto fragile, bisogna ci sia un appoggio per l’uno o per l’altro.
Si è detto della presenza di soldati cinesi infiltrati fra le truppe birmane però.
Ci sono delle voci ma non le abbiamo potute verificare, così come ci sono voci che dalla Cina sono arrivate armi. Pechino nega, parla di scambi commerciali. Più che altro la Cina che per 50 anni ha sempre appoggiato la giunta militare, probabilmente in questo momento si trova in una situazione un po’ critica perché dovrebbe distanziarsi dai militari ma la Cina è così tanto implicata nel commercio che alla fin fine darà il suo appoggio a chi gli garantisce la continuazione dei rapporti economici.
I monaci buddisti in passato erano in primo piano nelle rivolte, questa volta?
Non così tanto come in passato. Dopo la rivoluzione del 2007 il governo ha cambiato tutta la leadership. Adesso non ci sono più i monaci guerrieri ma dei monaci devozionali che badano alle loro preghiere e alla vita di comunità e poco all’impegno sociale. Però ci sono state manifestazioni addirittura a Mandalè che è la città dove c’è il buddismo più conservatore e tradizionale, dove i monaci sono scesi in strada.
Aung San Suu Kyi è stata violentemente criticata in occidente durante la repressione della minoranza musulmana, addirittura si era chiesto il ritiro del suo premio Nobel per la pace. Lei che idea ha del personaggio?
Sciocchezze. Certi paesi occidentali non conoscono la realtà difficile del paese. Si pensa ci siano solo i musulmani, ma in Myanmar invece ci sono 136 etnie che hanno subito da parte dei militari le stesse violenze e nessuno ha mai detto nulla. Le minoranze birmane guardano a loro come uno dei tanti casi non ne fanno un caso speciale. L’altro elemento ignorato in occidente è che la Aung ha avuto la funzione di mediatrice tra l’esercito, la popolazione e la minoranza. Condannarla per le violenze dell’esercito e cercare di buttarla giù è un’autentica sciocchezza.
(Paolo Vites)
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