“Sul Covid escono dati a tappeto, in realtà sarebbe più opportuno vedere il contesto socio-economico in cui il virus si diffonde: la struttura per età della popolazione, le unità locali delle imprese attive, i dati su mobilità e relazioni sociali… Altrimenti si parla solo di Covid, riuscendo sì a ridurre il rischio, ma diventa sempre difficile attuare interventi efficaci perché più mirati e precisi”. Guardando alle tabelle che ogni giorno vengono diffuse dall’Istituto superiore di sanità e dal Cts, l’ex presidente dell’Istat, Luigi Biggeri, oggi professore emerito di Statistica all’Università di Firenze, non nasconde i suoi dubbi sulla completezza, attendibilità e fruibilità di questi dati.



Perché non la convincono i numeri di contagi, ricoveri, guariti e decessi? Non ci raccontano come sta evolvendo la pandemia?

Non sono facilmente interpretabili. A partire dal numero dei contagi, che dipendono dal numero dei tamponi, a loro volta non definiti in maniera precisa. Sono stati effettuati per sospetto diagnostico o per attività di screening? E poi, cosa significa contagiato? Abbiamo interpretazioni diverse da zona a zona e da Asl ad Asl, non esiste un criterio uniforme. Addirittura si torna a dire che si potrebbero non fare i tamponi agli asintomatici, che sono il 70-80% dei positivi, e anche la definizione di contatto stretto è molto labile. Invece in statistica per interpretare correttamente i fenomeni servono definizioni e dati precisi.



Non lo sono neppure i ricoveri in ospedale o in terapia intensiva?

Si ritiene che questi siano i dati più importanti e precisi e lo sono insieme al numero dei morti, ma anche in questo caso sono numeri poco validi e non sufficientemente dettagliati. I dati che vengono forniti sui ricoveri in ospedale o in terapia intensiva sono i saldi e non i flussi. Individuano quanti sono i contagiati ma non ci dicono poi esattamente dove vanno, perché dalla terapia intensiva escono pazienti, o perché guariscono o perché purtroppo muoiono. E lo stesso vale per i decessi.

Perché?

Se non si sa dove muoiono, e purtroppo non ci comunicano se il decesso avviene in terapia intensiva, in isolamento domiciliare, nelle Rsa…, come si fa ad analizzare in maniera adeguata e a interpretare meglio il fenomeno e le dinamiche dell’epidemia?



Ogni giorno siamo assillati da numeri. Si sfruttano al meglio i dati territoriali sull’epidemia?

No, questa è la carenza maggiore. Abbiamo dati troppo grossolani e definizioni poco puntuali. Le informazioni vengono rilevate a livello di singola Asl, ma le sfaccettature del fenomeno epidemico ci dovrebbero spingere a conoscere numeri territoriali più dettagliati, soprattutto a livello di Sistemi locali del lavoro.

Infatti si è discusso molto sulla granularità dei dati e proprio lei, a proposito del tracciamento tramite tamponi, ha proposto di far ricorso ai Sistemi locali del lavoro. Perché?

I 610 Sistemi locali del lavoro individuati dall’Istat sono “aree territoriali identificate da un insieme di comuni legati tra loro da flussi degli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro e di studio”. È chiaro che se si verificano contagiati, siano essi asintomatici o sintomatici, questi si spostano soprattutto all’interno di quelle aree. Quindi, non serve tanto basarsi sulle province e nemmeno sulle Asl. Ammettiamo che nasca un focolaio, non basta dire che è insorto in una Rsa. Occorre guardare in quale Sistema del lavoro locale si è sviluppato, come è strutturato questo Sll, cioè se è aperto o chiuso, e se e come si diffonde il virus. Perché a questo livello sono disponibili anche altri dati – livello di occupazione, intensità della mobilità eccetera – che aiutano a capire se quel focolaio può diventare pericoloso o meno. Se scatta un campanello d’allarme, è possibile attuare un tracciamento completo.

Ma esistono questi dati? Chi potrebbe fornirli?

Sono rilevati, l’Istituto superiore di sanità dovrebbe averli a livello comunale e i Sistemi del lavoro locali sono aggregazioni di comuni. Basta quindi aggregarli. Una richiesta in tal senso era stata avanzata mesi fa dal presidente della Società italiana di statistica e dal sottoscritto.

Nessuna risposta? E perché in questa seconda ondata non si prende in considerazione questa ipotesi di lavorare sui dati dei Sistemi del lavoro locali?

All’epoca si giustificavano dicendo che dipendeva dall’urgenza e dalla delicatezza della situazione. Ma da allora sono passati tanti mesi e ci si poteva attrezzare, correggendo questo difetto. E sinceramente non capisco perché non lo si faccia.

Non crede che numeri approssimativi concorrano a diffondere un eccessivo allarmismo?

Fare dell’allarmismo con dati di difficile interpretazione non va bene, perché possono prestare il fianco a chi può dire tutto e il contrario di tutto.

Avessimo adottato prima una “statistica” dell’epidemia più accurata, ne avrebbero tratto giovamento anche le misure di mitigazione e contenimento?

Sicuramente sì, perché gli interventi, che dovrebbero essere fatti a livello locale e molto mirati sia nel tempo che nello spazio, in particolare nello spazio, si sarebbero basati su un set di informazioni più articolato.

Secondo il presidente dell’Accademia dei Lincei il calcolo dell’indice Rt non è affidabile. Che ne pensa? Può essere individuato un altro indice?

Sono d’accordo. Non è affidabile, è vero, perché sono imprecisi le definizioni e i dati dei singoli fenomeni che compongono l’indice Rt, e cambiano con l’evolversi dei fenomeni. Non credo che esista un altro indice migliore, perciò dovrebbero essere migliorati i dati che portano all’Rt.

Che idea si è fatto dei 21 indicatori utilizzati da cabina di regia e Cts? Sono davvero utili per monitorare la situazione e aiutare a prendere le decisioni più opportune? Garantiscono la sufficiente tempestività?

Purtroppo la tempestività no. Sono comunque indicatori molto utili, che vanno considerati nel loro insieme, anche se alcuni si portano dietro dei difetti, dovuti ai dati su cui sono basati. Ci sono poi indicatori su cui varrebbe la pena discutere.

Per esempio?

La percentuale di occupazione dei posti di terapia intensiva. È importante, ma dipende sempre da quanti ce ne sono, da quanti se ne stanno via via attrezzando e da quanti posti avremmo dovuto aggiungere per aumentare la capienza complessiva. Se si accelerano queste nuove disponibilità, la situazione generale migliora.

Lei concorda con chi sostiene che lo studio di una pandemia è solo al 50% appannaggio delle scienze della salute, perché c’è un altro 50% che coinvolge altre discipline scientifiche?

È indispensabile questo approccio multidisciplinare.

Dovesse dare un’indicazione per migliorare la qualità delle statistiche sull’epidemia che cosa consiglierebbe?

Valorizzare i flussi e i dati territoriali, evidenziandoli su mappe. E i dati imperfetti potrebbero essere via via affinati.

(Marco Biscella)

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