Una mattina di un giorno qualsiasi in tempo di epidemia si può sentire in tv la raffica numerica che segue: “Ieri abbiamo registrato 11.000 contagi a fronte di 100.000 tamponi, con un tasso di contagio dell’11%, oltre a 2.000 ricoveri in terapia intensiva e 400 decessi. La situazione si è notevolmente aggravata rispetto al giorno prima, quando i decessi erano 390 e il tasso di contagio era del 10,5% su ben 200.000 tamponi, e i ricoveri in terapia intensiva erano 2.010; solo il numero di decessi è stato uguale al giorno prima”.



I numeri appena scritti sono inventati, ma sono simili al reale. Per uno che fa il mestiere dell’analista di dati, questa bordata di numeri e il relativo commento sono una tortura. Diciamo perché.

Anzitutto, i numeri sono troppi. Come fa un povero ascoltatore a memorizzarne così tanti, metterli in sequenza logica e capirne il senso? I numeri, se non sono ridotti all’essenziale, intuibili nel significato e possibilmente accompagnati da qualche grafico semplificato, non vengono compresi. Diffidiamo, dunque, di chi, sparandoli a raffica, fa l’analogo della nota espressione napoletana facìte ammuina, che una leggenda dice fosse un ordine della marina borbonica dato nel caso d’ispezione alla nave. Comandato da un fischietto, l’ordine era che tutti, con qualcosa in mano, dovevano correre con agitazione da destra a sinistra, su e giù per le scale, attraverso il ponte, in breve, fare confusione. Ecco: chi si agita con i numeri, fa ammuina dentro l’epidemia.



Poi, e questo è grave, i dati sono contraddittori, nel senso che alcuni indicano un calo e altri una crescita dell’epidemia, ma sono commentati come se si trattasse di una pluralità di segni di un’unica tendenza. Inoltre, e questo è ancora peggio, si mischiano dati che fanno riferimento a ieri (le positività ai tamponi e, seppure con riserva, i ricoveri) con dati che, rispetto al contagio, fanno riferimento a circa un mese fa (i morti). Alla fine, l’ascoltatore frastornato, pensando che è il solo che non è stato in grado di apprezzare tanta generosità informativa, finisce per fidarsi del giudizio erratico di chi ha recitato la tiritera numerica.



Un osservatore ingenuo potrebbe eccepire che ciò che dice il/la giornalista è verità assoluta. I morti non sono mica morti un mese fa, sono morti ieri. I tamponi sono quello che sono, mica importa se ieri era domenica e sono stati fatti metà campioni del giorno precedente, anzi, pensa sempre l’ingenuo, chissà cosa avrebbero trovato se ne avessero fatti altri 100mila. E continua: è ineccepibile confrontare il tasso di contagio di giorni diversi poiché i dati sono stati relativizzati rispetto alla diversa numerosità dei tamponi. Quindi, quanto è bravo/a quel/la giornalista che ha saputo fare la divisione positivi/tamponi ed è riuscito a moltiplicare per cento!

Invece, diciamo noi, questi numeri sul contagio o sono patenti errori o sfiorano solo la superficie del fenomeno, ne ignorano le dinamiche interne, non colgono come pulsa il fenomeno, e quindi sono numeri senza senso. Per cogliere l’essenza informativa dei dati, occorre analizzarli con conoscenza di causa. Diciamo, dunque, come dovrebbero essere presentati.

Cominciamo con il cosiddetto “tasso di contagio”, ossia con la frequenza percentuale di positivi al tampone. È facile dimostrare che c’è una relazione inversa tra il numero di tamponi eseguiti e la percentuale di positivi, vale a dire che, nel giorno in cui si fanno tantissimi tamponi, a parità di condizioni, la quota di positivi è tendenzialmente inferiore rispetto a quando se ne fanno pochi. Ragion per cui si potrebbe addirittura affermare che un 11% di positivi è non superiore al 10,5% se (il primo) si riferisse a metà tamponi. Però, per prudenza metodologica, è meglio dire che il giorno prima si era registrato un tasso di contagio del 10,5% “tuttavia, su un numero ben più alto di tamponi eseguiti”. Dopo la terza volta che sente l’avverbio “tuttavia”, il telespettatore attento comincerà a sospettare che il/la giornalista non abbia sbagliato a causa della solita fretta, ma che volesse veramente dire che più tamponi implicano tassi più bassi.

Inoltre, basta osservare l’andamento del contagio per alcune settimane per notare che, da giorno a giorno, esiste una notevole fluttuazione nel contagio rilevato dai tamponi. Quando il contagio è tendenzialmente stabile, i tassi quotidiani sembrano le creste controluce delle nostre Dolomiti. Tenendo conto di questa instabilità giornaliera, si calcolano stime che mediano l’ultimo dato con quelli di sei giorni indietro, creando una media settimanale. Qualcuno media (si dice anche “liscia”) addirittura su 14 giorni. Nella Figura 1 sono riportati i dati sul contagio in Italia calcolati dalla Johns Hopkins University mediando i dati su sette giorni. Il lettore può apprezzare l’evidenza delle due grandi ondate epidemiche, quella da marzo a maggio e quella che inizia da settembre 2020.

Figura 1. Numero di contagiati da Covid-19 in Italia nel 2020 e 2021 (media di 7 giorni; fonte: Johns Hopkins University)

Poi, bisogna diffidare dei dati sui tamponi. Consideriamo, infatti, i dati sulla mortalità in Italia, tratti dalla stessa fonte (Figura 2). Si nota che le curve di mortalità delle due ondate sono dello stesso ordine di grandezza e che c’è una notevole sproporzione tra il numero di morti e il numero di contagiati, dovuta esclusivamente al gran numero di tamponi eseguiti dopo l’estate. Pertanto, la Figura 1 racconta di un sistema sanitario che ha rilevato i contagi in modo completamente diverso dopo la prima ondata, mentre la Figura 2 mostra che il virus ha avuto sulla popolazione un impatto quasi identico nelle due ondate e, quindi, che la mortalità per Covid descrive la diffusione del contagio in modo più verosimile che la frequenza di positivi al tampone. Tra l’altro – ma con questo deviamo dal discorso principale di questa nota –, la Figura 2 indica che stiamo subendo sia la coda della seconda, sia una terza ondata epidemica, di minore gravità.

Figura 2. Numero di morti per Covid-19 in Italia nel 2020 e 2021 (media di 7 giorni; fonte: Johns Hopkins University)

Pertanto, se il/la giornalista ci tiene proprio a diffondere l’indice giornaliero di contagio basato sui tamponi, lo presenti in una serie che includa un ampio arco temporale di rilevazioni. Anche ad occhio, il/la giornalista potrà percepire la tendenza del contagio ed eviterà di dare un giorno un messaggio allarmante e il giorno dopo uno rassicurante a causa dell’accidentalità (festività, difficoltà di conteggio dei tamponi plurimi sulla stessa persona, altre pecche che non vale la pena di sondare) nell’esecuzione dei tamponi. Il secondo avverbio che fa al caso è, dunque, “tendenzialmente”.

Non è finita: le contraddizioni tra indicatori. Se due indicatori pensati per misurare un dato fenomeno danno indicazioni divergenti (escludendo l’eventualità che i calcoli siano sbagliati), significa che non c’è un’unica tendenza. Riflettiamo anzitutto sui tempi dei contagi. I tamponi riguardano il contagio rilevato ieri e avvenuto qualche giorno prima (inclusa l’incubazione). I ricoveri avvenuti ieri in ospedale riguardano contagi avvenuti in media qualche giorno prima, poiché avvengono quando i contagiati, percependo la gravità dei sintomi, chiedono il ricovero. La letalità avviene in ospedale, dopo una o due settimane di terapia. Dunque, tra i due indicatori più distanti nel tempo può essere successo di tutto, chiusure e riaperture di scuole, fabbriche e luoghi pubblici, vaccinazioni di parte della popolazione, importazione dall’estero di virus mutati. Accompagnare i dati sui morti della domenica con le immagini della movida dello stesso giorno è un errore sostanziale. A meno che non sia un effetto voluto.

Pertanto, anche i dati sui nuovi casi (“incidenza”) di letalità e sulla ospedalizzazione vanno diffusi in serie storica. Dal confronto tra le curve, si potrà capire non solo qual è stato l’esito di eventuali interventi realizzati nel frattempo, ma anche se si stanno per verificare sovraccarichi del sistema sanitario (quando siamo nella parte ascendente della curva), oppure se una nuova fiammata infettiva sta avendo sulla popolazione un effetto diverso dalle precedenti. Per esempio, la Figura 3 mostra che la variante inglese del virus comporta un rischio di morire molto più elevato delle precedenti. Insomma, piuttosto che recitare i dati alla rinfusa come nell’ipotesi da cui siamo partiti, conviene presentare due o tre indicatori, ma significativi e finalizzati.

Figura 3. Numero di morti per Covid-19 nel Regno Unito nel 2020 e 2021 (media di 7 giorni; fonte: Johns Hopkins University)

Il ruolo messianico assunto dai mass media in un periodo storico di ridotta comunicazione sociale qual è un’epidemia, fa diventare un’affermazione corredata da dati un’incisione col fuoco nella mente di chi guarda o ascolta, al pari delle tavole della legge di Mosè. Il mezzo unidirezionale di comunicazione rischia di trasformare qualsiasi affermazione in un’informazione; per questo, il giornalista, che può interagire con l’esperto, deve fare da interfaccia linguistico e culturale tra chi dovrebbe informare e chi vorrebbe sapere. Vale a dire che il comunicatore ha la responsabilità sia di tradurre i tecnicismi, sia di sollecitare riflessioni, approfondimenti e persino dubbi, se aiutano chi guarda o ascolta a collocare correttamente l’informazione sull’enorme puzzle di virus e vaccini.

I comunicatori, se avessero saputo leggere i fenomeni, avrebbero capito subito di chi potevano fidarsi, quali domande fare, quali risposte erano plausibili. Invece, la scadente informazione sui meccanismi di trasmissione del contagio è stata il migliore alleato del virus nello sviluppo dell’epidemia. Per non parlare dei vaccini, dei quali si sa solo che ce li devono inoculare. I giornalisti dovrebbero seriamente considerare la possibilità di alfabetizzarsi statisticamente prima di divulgare numeri come se fossero informazioni. È l’intelligenza umana che trasforma i numeri in informazioni. Siccome ci va di mezzo l’onore della categoria, potrebbe essere l’Ordine a promuovere un’azione formativa sostenibile in questa direzione.

Abbiamo ancora molti mesi di epidemia davanti, c’è tempo per avviare un processo. Nel frattempo, si può suggerire di soffermarsi in tv solo su quei pochi esperti che, quando non sanno, dicono “forse”, o ammettono “non si sa di preciso”. Se è arduo imporre l’uso del “forse” ai cosiddetti esperti, lo usino i comunicatori, inserendo il condizionale ogniqualvolta sentono di dover attenuare l’assolutezza di un’affermazione. Gli statistici utilizzano una gradazione di incertezza che va da “è possibile” a “è probabile” a “è verosimile”. La si adoperi.

Infine, tra i comunicatori si stanno diffondendo neologismi da brivido. Se uno dice che “è stato tamponato” devi chiedergli cosa gli è successo, non come gli è successo. Infatti, può averti detto che gli hanno inserito un coso, un “dispositivo”, nel naso, non che gli hanno sfondato il di dietro dell’auto. Tra poco ci saranno le iniezioni per il virus, chissà se diranno che sono stati punturati. Inoltre, se lo stesso dice che sono stati “processati” tot tamponi, non vuol dire che li hanno portati dal giudice, ma che li hanno analizzati in laboratorio. Nei tempi che stiamo vivendo, col virus che fa quello che vuole e con le incertezze sull’efficacia dei vaccini, i neologismi da trincea sono bazzecole. Però, per favore, torniamo all’italiano, quello dei tempi di pace.

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