Per la seconda volta, dopo l’incontro dello scorso 30 agosto, il leader dell’Autorità palestinese Abu Mazen e il vice premier israeliano Benny Gantz si sono incontrati. Un colloquio ufficialmente motivato “dall’interesse comune a rafforzare il coordinamento e a mantenere la stabilità della sicurezza, nonché a prevenire il terrorismo e la violenza”. Il riferimento, ci ha spiegato in questa intervista Giuseppe Denticeresponsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI – Centro Studi Internazionali, “è ai recenti episodi di attacchi isolati da parte di cittadini palestinesi a civili israeliani, per cercare di prevenire che questi episodi possano sfociare nel terrorismo”. Grande assente è stata Hamas, “nemmeno invitata, tanto che il portavoce dell’organizzazione ha parlato di pugnalata alle spalle” ci ha detto Dentice “e che in sostanza, benché il dialogo sia sempre il benvenuto piuttosto che l’uso delle armi, dimostra come nessuna delle due parti abbia la volontà politica di affrontare gli autentici temi cruciali per un cammino reale verso la soluzione di una situazione che oggi è la peggiore dai tempi degli accordi di Oslo nel 1993, quando venne costituita ufficialmente l’Autorità nazionale palestinese”.



Rispetto all’ultimo incontro dello scorso 30 agosto tra Abu Mazen e Benny Gantz è cambiato qualcosa nello scenario israelo-palestinese?

No, in linea di massima no. Anzi l’incontro conferma l’esistenza di problemi reali come ci siamo detti nella nostra ultima intervista e cioè le violenze a Gerusalemme Est. Questo incontro nasce anche da queste esigenze, cercare di dare delle risposte politiche, un coordinamento unificato sulla sicurezza per mantenere la stabilità e prevenire l’instabilità, evitando che quelle sacche violente possano sfociare in ambiti più preoccupanti come il terrorismo vero e proprio. Da questo punto di vista l’idea era discutere dei temi di maggior condivisione, in realtà dei temi che soprattutto dividono i due interlocutori.



Tra Autorità nazionale palestinese e Israele c’è sempre di mezzo Hamas. È stata completamente ignorata?

Da quello che posso intuire dubito che sia stata avvisata, vedendo anche quello che ha scritto su twitter un loro portavoce, che non ha esitato a parlare di pugnalata alla schiena. Ovvio che dietro queste parole c’è una enfasi retorica, ma è anche il gioco delle parti.

Cioè?

Hamas vuole mantenere vivo il ricordo dell’ultimo scontro, quello di maggio, per utilizzarlo in chiave di narrazione interna, per unificare cioè i palestinesi contro il nemico sionista, come lo chiamano loro, e delegittimare l’autorità palestinese.



Il quadro è sempre quello, un conflitto palestinese aperto e spaccato in tre. Quanto conta oggi Abu Mazen in questo contesto?

La sua è una autorità molto debole, fortemente contestata al suo interno e che ha in Hamas uno dei suoi principali sfidanti. Va detto che qualunque scelta oggi venisse adottata sarebbe comunque sbagliata, perché troverebbe l’opposizione di tutti, sia all’interno del mondo palestinese che all’esterno.

Quindi? Che frutti possono portare questi incontri?

Dal punto di vista sostanziale, l’attuale situazione è la peggiore, quanto meno dal tempo degli accordi di Oslo. Ma è anche una situazione di profonda debolezza dettata da questioni ormai note. Da queste situazioni chi trae vantaggio da una parte è Hamas, dall’altra il governo israeliano, che può contestare quello che eventualmente potrebbe dire Hamas. Siamo sempre in mezzo al guado.

Però un dialogo c’è, e questo è comunque un bene, non crede?

Il dialogo è sempre una nota positiva, da questo punto di vista meglio le parole che le armi, però è necessario che dalle parole si passi ai fatti. Bene discutere di sicurezza o di questioni economiche, ma poi bisogna affrontare i temi cruciali, che sono di natura umanitaria, legati alle garanzie di mobilità, di socialità, insomma all’ordinarietà. Israeliani e palestinesi sanno dove bisogna andare, ma devono dimostrare una volontà politica, che oggettivamente manca.

(Paolo Vites)

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