L’avvento del Governo Draghi sta letteralmente terremotando il Partito democratico, suscitando in molti commentatori un sincero stupore data l’oggettiva vicinanza tra gli obiettivi programmatici annunciati dal presidente del Consiglio e quelli più volte ribaditi dal principale partito della sinistra italiana. Sta avvenendo qualcosa che va ben oltre la comprensibile metabolizzazione del lutto rappresentata dalla fine traumatica dell’esperienza del Conte 2, e persino dell’evidente messa in crisi della prospettiva di costruire un’alleanza strategica con un Movimento 5 Stelle depurato dall’estremismo populista delle origini. Una sorta di crisi d’identità rappresentata dalla perdita del ruolo di gestore dei principali processi politici che hanno caratterizzato la transizione tra la prima e la terza repubblica, come definite nel linguaggio mediatico corrente.



Non è certo un mistero che il Pd, pur tenendo conto delle metamorfosi di facciata, rappresenti tuttora l’unica vera eredità delle forze della prima repubblica. Sopravvissuta all’infausta stagione di Tangentopoli, ma soprattutto quella che ha potuto politicamente capitalizzare lo squilibrio subentrato tra i poteri dello Stato, a vantaggio di una magistratura egemonizzata dalla corrente di riferimento della sinistra ex comunista. Quanto affermato, e persino documentato, nel libro-intervista (Il Sistema) all’ex presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Palamara, recentemente pubblicato, certifica quanto già ampiamente noto sull’uso politico della giustizia per alterare gli orientamenti dell’opinione pubblica e gli esiti delle competizioni elettorali. Arrivando persino ad affermare che le iniziative dei magistrati ex comunisti non si limitavano ad affiancare gli interessi della componente politica del principale partito di riferimento, ma si proponevano di condizionare la formazione degli stessi orientamenti politici della sinistra italiana. Una sorta di riedizione post-Muro di Berlino della via leninista al socialismo, che ne ha aumentato l’autoreferenzialità, la pretesa di imporre alla comunità ciò che si ritiene politicamente corretto, a discapito della volontà del popolo, e a compiere errori, tipo quello di identificare le politiche dell’immigrazione con l’accoglienza indiscriminata, che hanno contribuito a gonfiare il consenso della nuova destra populista.



Resta il fatto che sul combinato disposto tra il giustizialismo giuridico e l’ostilità verso qualsiasi tentativo di modernizzare le politiche del lavoro e del welfare è stata caratterizzata in chiave anti-berlusconiana l’intera stagione della cosiddetta seconda repubblica. Quella che ha portato le diverse edizioni dell’attuale Pd (Pds, Ds, l’alleanza dell’Ulivo) a svolgere il ruolo di collettore tra i diversi poteri dello Stato, nelle designazioni istituzionali, nelle nomine delle aziende pubbliche e negli apparati delle amministrazioni. Anche al costo di far fallire gli unici tentativi di innovare le politiche del Pd intrapresi da Veltroni e da Renzi, sino al punto di contrapporre al borioso fiorentino l’orgogliosa ambizione di voler imitare i laburisti di Corbin.



Ma il compromesso tra il ruolo di cerniera tra i poteri istituzionali e la propaganda giustizialista e tardo classista si è ben presto rivelato in punto debole della sinistra italiana. Quello che ne ha impedito di svolgere una funzione propulsiva per una stagione di cambiamenti istituzionali ed economico-sociali, generando le premesse per la delegittimazione delle classi dirigenti della seconda repubblica e le condizioni ideali per la deriva populista e dell’estremizzazione del confronto politico che ha egemonizzato gli esiti della nuova legislatura, e caratterizzato il programma del Governo giallo-verde con il riciclaggio maldestro degli obiettivi e degli argomenti propagandati a sinistra negli anni 2000.

La nascita del Governo giallo-rosso, sull’onda del fallimento dell’esperimento populista per eccellenza del Conte 1, rappresenta il tardo tentativo di tenere in vita i fallimenti della seconda e terza repubblica. Un inedito compromesso volto ad assecondare le aspettative di ritorno al Governo dell’ex odiato partito rappresentante dei poteri forti e le paure di perdere i privilegi acquisiti da parte degli improvvisati esponenti del M5s, fondato sull’esplicita intenzione di far sopravvivere la legislatura fino alla scadenza dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, per condizionarne l’esito, in attesa di tempi migliori.

Troppo poco, e del tutto inadeguato, per traghettare il Paese fuori dall’emergenza sanitaria e dalla più grave crisi economica e sociale della storia della Repubblica. L’avvento di Draghi rappresenta nel contempo la fine di un ciclo politico e il parafulmine per evitare l’impatto negativo di una crisi politica sul versante delle relazioni con l’Europa e con i mercati finanziari. L’occasione per ridare credibilità alla gestione della cosa pubblica senza avere la tentazione di propagandare i risultati prima di averli colti.

Ma i problemi del nostro Paese rimangono inalterati. E si identificano principalmente nell’inarrestabile deriva parassitaria della gestione delle risorse disponibili, nella difficoltà di coagulare il consenso verso politiche in grado di rigenerare i ceti produttivi e per rimediare le mancate riforme di un sistema di welfare corporativo e assistenzialista. Il focus sul quale baricentrare le politiche per i prossimi 10 anni, nella consapevolezza che saranno fortemente condizionate dalla qualità degli interventi che saranno messi in campo nei prossimi mesi, e dai vincoli pluriennali che il nostro Paese dovrà assumere per l’utilizzo delle nuove risorse europee.

L’avvento del Governo Draghi consente alle forze politiche di fare questo salto di qualità senza avere l’assillo della ricerca di un consenso immediato. Questo vale soprattutto per il Pd, chiamato a ripensare il ruolo della sinistra prendendo atto dell’esaurimento delle rendite di posizione, delle conseguenze nefaste della reciproca delegittimazione tra le forze politiche e delle mancate riforme delle istituzioni e del welfare.

Il tentativo, già fallito, di riciclare la formula dell’alleanza organica con il M5s guidata dall’immancabile Giuseppe Conte, leader per tutte le stagioni, è la rappresentazione dello stato confusionale del principale partito della sinistra. La ridicola autocandidatura di Beppe Grillo alla segreteria del Pd e la comica occupazione della sede del Nazareno da parte delle Sardine, una dimostrazione di cosa sia diventata la percezione collettiva del ruolo di questo partito nella società italiana.

Ma tutto sommato queste evidenze dovrebbero aiutare il gruppo dirigente di questo partito a prendere atto che si è chiuso un lungo ciclo politico. Una buona premessa per immaginare uno nuovo abbandonando i vecchi pregiudizi.