Che fine hanno fatto i moderati cattolici e laici del Pd è la domanda che serve farsi con urgenza. Serve ai candidati tutti che ad oggi sono in campo con qualche storia alle spalle, Gianni Cuperlo, Stefano Bonaccini, Elly Schelin e Paola De Micheli.
Essi sanno che hanno poco da dirsi con il mondo cattolico e che meno ancora conoscono le sagrestie di frontiera, le comunità cattolico-progressiste, il volontariato cattolico ed in generale un mondo che ha avuto altri riferimenti nel partito. Più avvezzi a sezioni antiche, quelle poche che ancora esistono, o a follower anonimi, aver perso contatto con quel mondo è un male irrimediabile.
Non sono sul piano elettorale, quanto su quello politico. Il Pd era nato come momento di fusione programmatica tra i cattolici di sinistra ed i progressisti non massimalisti, interpreti entrambi della stagione dell’Ulivo con due anime distinte, uniti da Veltroni che li portò oltre il 30%. Poi le sciagure varie ed il takeover renziano hanno sparigliato le carte e nella nuova fase politica di moderati che guardano a sinistra è rimasto il solo Franceschini, capo di nome e non di fatto, di quel poco che resta.
Dunque la mancanza di una candidatura di area alla segreteria rappresenta forse il vero evento, il vero vuoto che si manifesta sotto gli occhi di tutti. Se così rimanesse, il Pd tornerebbe a scimmiottare i Ds di D’Alema, perdendo ogni afflato politico e riducendosi a sintesi delle residue truppe dell’ex primo partito della sinistra.
Perciò il tal Guizzetti che annuncia la corsa (che corra davvero è da vedere) ha solleticato alcune curiosità. Che sia un estraneo lo si percepisce con chiarezza. Non solo ha un curriculum da aspirante (anche qui) partner di Goldman Sachs più che da politico, ma rivendica anche la sua estraneità alle storie di partito come un fatto positivo. Può essere una risposta che colma il vuoto? La sensazione è che non lo sia. Il mondo dei moderati del Pd non pare si stia muovendo. Per ora. Sembra tramortito e privo di vita, attratto da Renzi e Calenda, blandito da Conte, ma poco interessato alla proposta dei candidati segretario in pectore, che tutto stanno facendo tranne provare a dialogare con un elettorato non di destra, non populista e che cerca una solida leadership per guadare questi anni complessi.
I temi ci sono. Dalla riforma del fisco con attenzione ai ceti medi alle politiche per i ragazzi della Z generation persi in un mondo ancora poco compreso, dai temi dell’inclusione attiva dei migranti alla sicurezza sociale tramite il lavoro, i moderati che vorrebbero un Pd più coerente con le aspirazioni iniziali e meno appoggiato sul dibattito interno alla sinistra di fatto non sono invitati alla festa delle elezioni del segretario. Almeno tatticamente, un candidato poteva venir fuori e rivendicare un modo di essere di quel progetto originario. Ma niente.
Non sarà un underdog la risposta al vuoto. Anzi, candidature senza contenuto politico rischiano solo di creare confusione in questo minestrone all’emiliana che rischia di diventare la corsa alla segreteria del Pd.
E non è Antonio Guizzetti, sia chiaro, il problema. Ha tutto il diritto di provarci. Ma la fine corsa di un progetto a cui, se nelle prossime giornate non verrà dato impulso vero, con contenuti all’altezza della sua storia, anche con gesti simbolici come la rinuncia di qualcuno che riconosca la leadership di altri o l’appoggio di mondi e personalità di valore, si dovrà parlare al passato remoto. Non di ciò che è stato, ma di ciò che fu. Diventando non la futura casa del moderno progressismo europeo, ma un ricovero di periferia per underdog gestito dal vincitore di una competizione tutta interna ai gruppi dirigenti senza parlare al Paese, tranne che con i tweet. Su quello son diventati tutti più esperti. Speriamo basti.
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