Poniamoci delle domande che potrebbero apparire banali, ma che rivelano un aspetto grave della crisi politica italiana. La prima: c’è qualcuno che ancora si può stupire che esista in Italia un governo di destra-centro o di centrodestra? C’è da ricordare che la definizione di questo governo è dettata dalla più squinternata informazione italiana, sia essa cartacea o televisiva, erede di quella che un Presidente della Repubblica come Francesco Cossiga definiva “un partito trasversale e una lobby affaristico-giornalistica che conduceva più o meno sotterraneamente una campagna di destabilizzazione politica”.



Ora questa lobby è talmente screditata agli occhi dell’opinione pubblica italiana che ha ridotto la sua forza di convinzione solamente alle doppie definizioni, che non hanno in fondo alcun significato e alimentano le discussioni degli ultimi bar di periferia.

Ma andiamo avanti con le domande. La seconda: c’è qualcuno che ha compreso quale tipo di opposizione, con un’altra “visione sociale e politica complessiva”, intende fare il Partito democratico, maggior esponente della sinistra storica italiana superstite, al governo di Giorgia Meloni? In parole più semplici: quale tipo di società ha in mente, per il futuro prossimo venturo e in un’epoca di grande evoluzione, il Pd?



Ammettiamo pure che ci siano differenze sostanziali sul problema dell’emigrazione (quale è al proposito l’opinione di Marco Minniti?) e dei diritti civili, ma quali sono le diversità tra la destra e la superstite sinistra per lo sviluppo economico industriale di un Paese, sul ruolo della finanza e delle banche, sulla stessa organizzazione della finanza mondiale e sul ruolo delle banche centrali, in ambito di Unione Europea quando si tratta di aiutare un Paese?

Yanis Varoufakis, l’economista icona della sinistra greca, in un recente e limitatissimo intervento su una rete televisiva italiana, ha detto che preferisce non parlare dei rappresentanti del Pd in Europa. Ha concluso sorridendo il suo intervento: non ho mai trovato degli “yes man” come un ministro italiano dell’Economia ai tempi dell’affondamento della Grecia da parte europea: la Grecia crollava disperata nella povertà e intanto le banche tedesche e francesi venivano foraggiate di trilioni di euro (Luciano Gallino). E il Pd? Taceva e stava con l’accoppiata dell’austerity Monti-Fornero.



Varoufakis dice, sempre sorridendo, che “preferisce non parlare con i rappresentanti del Pd in televisione”. Poi termina lapidario: “Vediamoci fuori, andiamo al bar o al ristorante”.

Magari Varoufakis è “un’estremista settario”. Ma di fronte alla diseguaglianze economiche e sociali che si sono create con la globalizzazione forzata di questi ultimi venti anni, che cosa dice il Pd, oltre a una condanna generica e condivisa da molti partiti? Che tipo di riforme ha in mente? E ancora, a quali rimedi pensa il partito di Enrico Letta (dimissionario) sul precariato, la crescente disoccupazione, l’inflazione e il diritto alla tutela del lavoro, al diritto al lavoro? Non basta dire che si è genericamente dalla parte dei lavoratori, bisogna attuare delle riforme credibili dopo essere stati per tanti anni in governi di coalizione di ogni tipo.

In fondo perché ci si pone queste domande ? Il motivo sta nel fatto che siamo destinati a mesi che non saranno facili e una ripresa italiana, che non sia basata solo sulla mediocrità come ha detto recentemente Giuseppe De Rita, avrebbe necessariamente bisogno di partiti motivati, organizzati e forti, sia a destra ma anche a sinistra. E invece stiano osservando a sinistra a uno spettacolo sconfortante.

Poche sere fa, il migliore dei candidati (a nostro parere) del Pd per il prossimo – e speriamo che arrivi presto – congresso, il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, non è riuscito a dare risposte convincenti sulla svolta del Pd, sul modello sociale da perseguire.

Forse non era quello il momento giusto per definire un programma. Ma il fatto inquietante è che attualmente esiste solamente una pletora di candidati e non c’è uno straccio di programma congressuale. Si parla di primarie a quattro per il 26 febbraio, poi di primarie a due per le successive. Ma il programma dei singoli candidati quale sarebbe? E in questo caso ci sono all’interno del Pd un confronto su programmi differenti, su scelte differenti?

Di fronte a tutto questo c’è da rimpiangere il dibattito acceso, spesso irruento, ma motivato, del vecchio Pci, tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, con la “banda” dei centristi che portavano avanti il partito tra difficoltà, incertezze e contraddizioni. E ancora lo scontro del Comitato centrale nel novembre del 1979, tra Enrico Berlinguer e sempre il “grande eretico” Giorgio Amendola.

Mentre il comunismo finiva la sua parabola nel mondo occidentale, i superstiti di una visione sbagliata, quella che un tempo condannava il riformismo, davano finalmente vita a un grande dibattito sulle riforme da attuare, su visioni e leadership. Da un lato l’inconsistente “questione morale” di Berlinguer, dall’altro la grande proposta innovativa del partito unico (proposta sin dal 1964) della sinistra in chiave europea, non più leninista, proposta da Amendola. Erano tentativi ma rivelavano almeno passione per il dibattito politico e sociale.

Dove è finito tutto questo? Come è potuto scomparire di colpo e inaridirsi in un trantran quasi patetico con le contrapposizioni tra Elly Schein, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo?

Certamente le ragioni si possono trovare nella storia degli ultimi trenta anni, dalla caduta del Muro di Berlino ai cambiamenti di nome a un partito che doveva rivedere profondamente i suoi riferimenti ideali e culturali, alla tragedia di “Tangentopoli”, dove il “partito trasversale dell’affarismo giornalistico”, unito alla magistratura, ha stroncato una intera classe dirigente lasciando che tutto cadesse nella precarietà più assurda e nessuno si preoccupasse di ricostruire una leadership italiana che si opponesse alle lobbies economico-finanziarie vincenti.

Come è possibile che, all’alba del 2023, un partito composto da postcomunisti e cattolici di sinistra debba fare i conti con l’alternativa vincente di destra-centro o centrodestra e debba essere tallonato sulla sinistra dal populismo più sgangherato della storia formato da Giuseppe Conte e il suo Movimento di “comici” creato da un sedicente comico?

L’ultima notizia di ieri sul Pd è il contrasto su come votare alle primarie: per voto partecipato, andando a un seggio in sezione (se esistono ancora le sezioni) o con un clic sul computer. Un problema che sembra gigantesco, ma che appare come l’anticamera dell’agonia storica di un partito.

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