Letta sta consumando rapidamente il tempo a sua disposizione per risolvere il rebus capitolino. La vicenda romana era priva di soluzioni già prima che lui arrivasse, ma è sempre fastidioso dover prendere atto di non fare la differenza e che nessuno dei suoi interlocutori intende arretrare di un millimetro, infischiandosene dei suoi appelli.
Il Pd romano è un malato che non ha mai accettato la propria malattia. Matteo Orfini, in qualità di commissario del partito durante la crisi della giunta Marino, presentò un ambizioso piano di ristrutturazione dei circoli, predisposto da una commissione affidata a Fabrizio Barca, che doveva stroncare il male del correntismo. La conseguenza di quel lavoro fu la consegna delle chiavi della città al Movimento 5 Stelle. Dopo quel tracollo nessuno ha più avuto il coraggio di suggerire una cura per il corpo debilitato di quel che resta di un grande partito abituato a veleggiare sopra il 40%.
Il “correntismo” si manifesta con sintomi inequivocabili: la diffidenza cronica tra i dirigenti, le manie di protagonismo, il clientelismo, la subalternità a piccoli potentati che foraggiano altrettanti piccoli ras di quartiere. Del resto il degrado generale che ha colpito la città di Roma dopo l’inchiesta denominata “mafia capitale” è passato dalle sue strutture pubbliche alla sua classe dirigente, e non poteva certo risparmiare il partito che ha governato ininterrottamente dagli anni 70.
Virginia Raggi non ha intenzione di fare passi indietro, confortata da risultati inaspettati nei sondaggi. In particolare, sono davvero sorprendenti i dati relativi ad alcune grandi borgate, dove si registrerebbe un suo consistente radicamento tra le fasce più popolari. Se così stanno veramente le cose si andrebbe verso un risultato a sorpresa, con la sindaca uscente già al ballottaggio.
Credono poco a questi primi sondaggi gli altri concorrenti del centrosinistra. In primo luogo Calenda. Il leader di Azione si comporta come se fosse già sindaco e ha già fatto la sua proposta a Letta e al Pd: niente primarie, al massimo datemi un nome con cui fare ticket. Un nome per il vice-sindaco, ovviamente. Per il Pd (e per Letta) sarebbe una resa senza condizioni.
I sostenitori di Roberto Gualtieri incominciano a dare segni di insofferenza. La disponibilità data dall’ex ministro a “fermare le macchine” e ad attendere un’iniziativa del segretario si sta rivelando un errore, perché interpretata da molti come una rinuncia.
Non poteva che palesarsi, a complicare le cose, l’attesa sortita di Goffredo Bettini.
Bettini ha infatti annunciato la fondazione di una nuova area politica nel Pd. Non si capisce bene a cosa dovrebbe servire, visto il tentativo del nuovo segretario di neutralizzare quelle già attive da tempo. Ma in una lunga intervista a Repubblica il principale ispiratore della linea contestata del Pd durante la crisi di governo, annuncia il suo proponimento di spingere l’ex segretario Zingaretti a candidarsi per il Comune.
Letta dunque non è riuscito in oltre un mese a spostare in avanti la situazione romana e ad individuare un percorso accettato da tutti per ricomporre un quadro unitario. Il fatto che il centrodestra sia in grande difficoltà e non sembri in grado di formulare una proposta competitiva, non semplifica certo il quadro dei problemi che sono sul tavolo di Letta.
È a questo punto che il segretario del Pd si è visto costretto a rimescolare le carte e a lanciare le primarie di “coalizione”. Le primarie sono state un segno distintivo del Pd negli anni dell’Ulivo di Romano Prodi e di Walter Veltroni. Ma non godono attualmente di buona salute. In più di un’occasione si sono rivelate uno strumento pericoloso, permeabile alle scorribande di forze organizzate intenzionate a condizionare il voto. Ma poi, che senso avrebbe fare delle primarie se le due ali della coalizione (5 Stelle e Azione) non vi parteciperebbero in ogni caso?
A questo punto sarebbe per Letta del tutto più logico e ragionevole accettare che questa moltitudine di candidati si confrontassero al primo turno (diciamo la verità, sarebbe un primo turno usato come delle primarie vere, con regole certe e con la garanzia che nessuno può fare imbrogli) e impegnarsi dopo a far convergere i voti di tutti su chi è andato al ballottaggio.
Inutile dire che la legge elettorale per i comuni conserva ancora una sua indiscussa validità: è l’unico sistema che i cittadini apprezzano, che hanno in più occasioni dimostrato di saper utilizzare bene, e che prevede il voto di preferenza che impedisce ai partiti di scegliere gli eletti a tavolino. Non andrebbe mai dimenticato infine che è il sistema elettorale che garantisce ai comuni stabilità di governo, con l’indiscutibile vantaggio di conoscere il giorno dopo chi ha vinto e chi ha perso.
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