Ora dovrà evitare di chiudersi in difesa, giocando possibilmente in contropiede. Di fronte al logoramento continuo e a un partito dilaniato dalle correnti, discusso nel suo ruolo, al prossimo congresso (si farà in ottobre) Zingaretti potrebbe mettere in gioco la sua leadership. Il sì al governo Draghi ha accelerato tutti i problemi, scardinando l’alleanza con i 5 Stelle e mettendo allo scoperto la fragilità del partito, rimasto vittima dell’abbraccio governista – ma inconcludente – con M5s.



È come se tutti i problemi del Pd fossero esplosi in un colpo solo, dice Fabrizio d’Esposito, cronista e commentatore politico del Fatto Quotidiano. E il ritorno di Conte, non come garante dell’alleanza ma da leader dei 5 Stelle, potrebbe lasciare i Dem ancor più disorientati.

Il Fatto Quotidiano ha scritto stamane (ieri, ndr) “Zingaretti si dimette”. Invece è ancora al suo posto.



L’umore del segretario era tale che dopo la nomina dei sottosegretari avrebbe potuto dimettersi. Ci è andato vicino. In ogni caso, il Pd è allo sbando.

Intanto Bettini ha negato sul Riformista di avere mai parlato di “una alleanza strutturale e strategica con il Movimento 5 Stelle”.

La mossa di Renzi che ha portato al governo Draghi è stata fatta pensando di disarticolare l’alleanza tra M5s e Pd ed è riuscita. L’obiettivo era quello di impedire la nascita di un’alleanza strategica, proprio quello che voleva Bettini.

Come commenti quello che ha scritto?

Come una sorta di reazione al fatto che Conte, anziché porsi come leader terzo e federatore del centrosinistra, abbia scelto di fare il capo dei 5 Stelle.



Dunque è davvero così?

Non era la sua opzione principale. Lui sperava di fare il leader di una coalizione giallorossa, però il primo tentativo di creare un coordinamento unitario (l’intergruppo parlamentare, ndr) tra le forze della sua ex maggioranza è fallito subito.

E quindi?

Ha capito che la cosa migliore, per rimanere sulla scena, è tornare a far politica da capo di M5s. È una soluzione che nasce dalla pressione dei vari big del Movimento. Conte è l’unica risorsa che hanno i 5 Stelle per ripartire dalle macerie del loro governo e dall’appoggio a Draghi.

Vuol dire che il Pd dovrà fare da solo?

Innanzitutto il Pd deve capire cosa vuol fare. Bonaccini una volta voleva fare il segretario, adesso non sappiamo cosa pensi, se sfidare Zingaretti al prossimo congresso o mettersi alla testa di quello che D’Alema chiamava il partito dei cacicchi, sindaci e governatori del Pd come Gori, Nardella, Decaro. 

Cosa farà Zingaretti?

Al di là delle mazzate che prende perché difende la D’Urso o perché nessuna donna del Pd è entrata nel governo, è in una brutta situazione. Governa un partito dove i gruppi parlamentari li ha scelti Renzi, un partito ostaggio delle due grandi correnti centriste, AreaDem di Franceschini e Base riformista di Guerini. Non a caso i due sono stati confermati ministri e il suo vice – Orlando – è ministro del Lavoro.

Orlando, Franceschini, Guerini, i sindaci con Bonaccini: chi è destinato a cambiare il Pd?

Nessuno di questi, perché la situazione è estremamente frammentata, mossa soltanto da logiche di potere o da ambizioni personali. Basta pensare alla parabola di Franceschini: ha pugnalato Letta per favorire Renzi, si è dichiarato contiano della prima ora ed è stato il primo a twittare il sostegno a Draghi. È il democristiano poltronista per eccellenza.

Guerini?

Un democristiano più sornione del primo… Entrambi sono il prodotto della democristianizzazione del Pd. C’è poco da fare: la fusione fredda, quella tra Dc di sinistra e e tradizione togliattiana e berlingueriana del Pci, non è riuscita.

La prima cosa da fare nel Pd?

Decidere. Nel Pd manca chi decide.

Alle prossime amministrative il Pd è destinato a perdere voti?

Bisogna capire come ci arriva, al voto, e se ci arriva lo stesso Zingaretti. In alcuni grandi comuni l’alleanza giallorossa è già fallita: a Milano Sala si è candidato d’imperio, senza confronto con M5s; idem la Raggi a Roma. A Torino, Chiamparino, che è in ottimi rapporti con Appendino, potrebbe tornare in campo.

A Napoli?

Forse è l’unica grande città in cui i giallorossi possono fare un’alleanza. Però mi sembra riguardare più le ambizioni personali di Fico che non un disegno strategico.

Mattarella può assistere all’indebolimento del suo partito senza aiutarlo?

Mattarella non è Napolitano, affronta i problemi quando si pongono, però non credo che possa giocare un ruolo attivo in questa fase. Ricordiamoci che nel 2018 affrontò la crisi di governo senza poter contare sul Pd.

Cosa significa “Mattarella non è Napolitano”?

Napolitano, dando nel 2011 l’incarico a Monti, pose le premesse della “non vittoria” di Bersani nel 2013. Se nel 2011 si fosse votato, il Pd avrebbe vinto le elezioni, non avremmo visto la scalata di Renzi al partito e molte altre cose.

In ogni caso il più vicino all’attuale capo dello Stato resta Franceschini.

Il côté culturale è quello, però da qui a immaginare che Mattarella possa star dietro ai disegni di Franceschini, ce ne passa, e francamente non mi pare possibile.

La partita del Colle?

C’è una rosa di quattro candidati più uno. Draghi è il candidato naturale, ma ci sono dubbi che possa mollare il governo in un frangente in cui l’Italia sta ancora uscendo dalla pandemia. Poi si vocifera in modo forte dell’ipotesi Cartabia e infine due vecchi centristi come Franceschini e Gentiloni vorrebbero giocarsi le loro carte.

E il quinto chi è?

Conte, ma ha molte meno chances di prima. Se fosse arrivato all’appuntamento da premier, sarebbe stato diverso. 

Renzi ha ancora ambizioni sul Pd?

No, poteva averle quando Bonaccini vinse in Emilia e si diceva che si sarebbe candidato alla guida del partito per riportarvi Renzi. Oggi è cambiato tutto. Renzi ambisce ad un ruolo internazionale perché ha capito di essere il politico più odiato che c’è in circolazione.

E i suoi di Italia viva?

O sono destinati a tornare nel Pd, o a fondersi in un partitino con i resti di FI, Calenda e simili.

Zingaretti potrebbe saltare in occasione dell’Assemblea nazionale del 13-14 marzo?

È presto per dirlo. Se intende intraprendere un percorso congressuale serio in cui oltre alla linea e alla visione ci si misura sulla leadership, lo vedremo presto, guardando i vari posizionamenti.

La crisi dei Dem potrebbe avere ripercussioni sul governo?

Non credo. Certo non è un elemento di stabilità, ma nel governo sono rappresentate le correnti che contano. Temo invece che la doppia crisi di Pd e M5s aumenterà ancor di più l’astensionismo.

(Federico Ferraù)