Come in una tragedia greca, l’epicedio, il canto funebre, per la caduta del governo Conte si è presto concluso, e rimane solo il rimpianto dei parenti più prossimi. Ma sta anche calando il sipario sul peana che dalle reti televisive e dalla carta stampata più autorevole aveva salutato l’avvento del governo Draghi. Ormai sempre più spesso si sente che da Draghi non ci si possono attendere miracoli e che, in fondo, quel che ci si può aspettare dal suo governo è solo un “cambio di passo” nella campagna vaccinale e la redazione di un Recovery Plan all’altezza delle competenze per esso necessarie. Solo che la campagna vaccinale invece di “cambiare passo” ha finito per “segnare il passo”: non per demerito di Draghi, ma perché il governo Conte, alla fine, aveva fatto quel che si poteva fare e perché quello che ci sarebbe ancora da fare, realisticamente, non dipende dall’Italia.
Sul Recovery Plan, invece, le attese non resteranno deluse, anche perché i suoi tempi li dà l’Europa. E quanto ai suoi contenuti, quel che da esso ci si può attendere, grossomodo, si sa già: in fondo è soprattutto a questo scopo che Renzi ha fatto quel che ha fatto.
È vero che il governo Conte su questo era caduto in una grave impasse. Ma è altrettanto vero che questo era accaduto perché all’interno del suo stesso schieramento, e soprattutto nel Pd, si scontravano due linee diverse. Dicendolo con moltissima, forse un po’ troppa, approssimazione: una linea “confindustriale” e una “popolare”. Draghi era la sola soluzione possibile. Ma è un fatto che l’avvento del suo governo ha segnato il prevalere non tanto, o non solo, della “competenza” quanto della prima di queste due linee. La quale consiste, alla fine, nel minor peso che sull’implementazione del Piano sarà assegnato allo Stato e nella maggior fetta che, per conseguenza, andrà alle imprese e, ancor di più, nella maggior libertà che da esse sarà pretesa e ad esse sarà concessa nell’amministrarla.
Non è offensivo, e neanche diminutivo, pensare che un tale probabile esito sia nelle corde della formazione e dell’esperienza di Draghi (e nella sua scelta di Cingolani, Franco e Colao). Ma non sarebbe neanche sincero ignorare che un ruolo maggiore per lo Stato e per le politiche di riequilibrio territoriale e sociale, che potrebbero sembrare auspicabili, richiederebbe una riforma degli apparati pubblici che non si direbbe molto praticabile nel tempo di un anno che, alla fine, a Draghi è dato. E questo significa, inevitabilmente, che il dopo-Draghi si ritroverà con più problemi di quelli del prima.
Di questi problemi si vedono già le avvisaglie nell’opera di demolizione che i mass-media pervicacemente stanno conducendo verso il M5s (che però – va detto – gliene dà più di una ragione) e, soprattutto, nei sommovimenti che agitano il Pd e nei venti che li sospingono. Il Pd, infatti, è al centro di qualsiasi strategia per il dopo-Draghi.
I venti che sospingono questi sommovimenti soffiano da tempo: almeno dalla defenestrazione di Letta e dal “proditorio” avvento di Renzi. La direzione in cui soffiavano era quella del definitivo approdo del Pd nell’area dell’establishment riconosciuto con l’abiura dalle residue ambizioni riformiste che continuavano ad attardarlo e, soprattutto, quella di una riforma dello Stato che ridimensionasse il sistema costituzionale di contrappesi al potere dell’esecutivo e mettesse al tappeto quel che restava dell’influenza delle organizzazioni sociali e delle formazioni intermedie (anche accelerando i processi di laicizzazione della società).
Questo progetto è andato incontro ad un crack nelle elezioni del 2018. Ma non è mai stato abbandonato: sotto le sue insegne sono state avviate le più influenti campagne mediatiche degli ultimi due-tre anni contro il governo giallo-verde prima ed il governo giallo-rosso dopo, e sempre nel nome della (in)competenza. La più ambigua di queste campagne è stata quella condotta contro il governo Conte, fino alla sua caduta e al tentativo di damnatio memoriae che l’ha seguita. Quel governo, infatti, coinvolgeva il Pd, e dunque l’aggregato politico su cui soprattutto si faceva, e si fa, conto. Ma, al tempo stesso ne metteva in scacco la pur maggioritaria rappresentanza delle “opinioni influenti” reclutata da Renzi nella sua breve segreteria: “meticciandosi” con il M5s, il Pd rischiava di allontanarsi da quelle “opinioni influenti”, di ridare spazio alle istanze di chi resta indietro e di riscoprire le sue politiche perequative.
Questa è, appunto, la tenzone che dopo la caduta di Conte si è aperta dentro il Pd e che vede la segreteria di Zingaretti minacciata da Bonaccini. L’accusa che si muove a Zingaretti è quella di essere stato troppo arrendevole verso il M5s, di aver mortificato l’orgoglio del partito, di essersi attardato in una difesa di Conte che è valsa solo a procrastinare la salvezza del paese che avrebbe dovuto capire star solo nelle mani di Draghi, ed a coltivare l’immagine di un Pd legato alla prospettiva di un centro-sinistra ormai vecchio, alla Prodi. Mentre Bonaccini è proposto, e si propone, come l’incarnazione dello spirito di rivalsa nel nome del superamento della stantia contrapposizione tra destra e sinistra e del dialogo con il mondo dell’innovazione.
Che Zingaretti non sia un comunicatore vigoroso può essere negato solo con qualche difficoltà. Ma bisogna anche dire che, alla fine, ha praticato, con pazienza e buona saggezza, l’unica strategia possibile verso un M5s che deteneva ancora la quota maggiore di parlamentari e verso un presidente del Consiglio, Conte, che era l’unico in grado di condurlo con dignità ad una transizione verso lo stile della democrazia rappresentativa. E soprattutto non si può disconoscergli il merito non solo di aver fermato un’emorragia elettorale che sembrava ormai inarrestabile, ma anche di aver guadagnato un seguito di almeno un 5% dell’elettorato, soprattutto un seguito molto convinto della nuova collocazione del partito e della prospettiva politica nella quale prendeva a muoversi. Mentre di Bonaccini si sa che a parole non si sbilancia molto, ma che l’immagine che coltiva allude ad una sorta di riedizione del renzismo, magari senza l’arroganza di Renzi ma con la stessa prossimità alle “opinioni influenti” di cui Renzi era il fiduciario (e difatti gode di buona stampa).
Che dire di questa contesa?
Stando alle attuali rappresentanze parlamentari Zingaretti non avrebbe molte chances. E la morte prima ancora di nascere dell’idea di un intergruppo parlamentare della vecchia maggioranza suona le campane a funerale.
Eppure, è abbastanza chiaro che il dietrofront, che Bonaccini incarna, avrebbe esiti elettorali e politici del tutto opposti a quelli che gli si vogliono accreditare: confermerebbe l’opinione, non ancora smaltita, di un Pd partito dell’establishment, lo allontanerebbe definitivamente dai ceti rimasti indietro che la pandemia ha accresciuto e che il post-pandemia allargherà ancora di più e dall’elettorato progressivo che fin qui, talvolta “turandosi il naso”, ha continuato a votarlo, e lo relegherebbe in una posizione nei fatti dipendente dalle politiche delle forze di centro (di un centro che in altri tempi, forse, si sarebbe detto destra), con cui non potrebbe fare a meno di allearsi. Lo dicono un 2018 che non è poi così lontano e, soprattutto, le ragioni nient’affatto contingenti che hanno portato a quel risultato. E questa volta non ci saranno le Sardine, ci sarà, invece, un M5s a guida Conte che gli contenderà voto per voto il terreno di quel che gli rimane del “ceto medio riflessivo” distante dalla rete delle relazioni politiche e insofferente alle sue manovre ed alle sue contiguità e un Leu (o qualcosa di simile) che, se seguirà Bersani sulla via di una sinistra sincera ma plausibile, potrà essere in grado di sottrargli buona parte dell’elettorato meno arrendevole e più politicamente radicato. Questo le “opinioni influenti” lo sanno (dovrebbero saperlo) e, comunque, non se ne dispiacciono. Non è detto, però, che vada bene anche al Pd.
Zingaretti (o quel che rappresenta), forse, si può ancora salvare, ma solo se – si direbbe oggi – “cambia passo”: se mette chiaramente sul piatto della discussione quello che è già chiaro, ma che molti – come al tempo di Renzi – ancora non percepiscono, e cioè che dopo di lui c’è solo l’alleanza organica con il centro(destra), questa volta senza le foglie di fico di Alfano e di Verdini; se spiega che l’alternativa corre tra l’idea che “ognuno è per sé” e che non farcela è solo colpa di chi non ce la fa, e quella che “non ci si salva da soli” e che gli altri non possono essere un “resto”; e se prova a (ri)suscitare un movimento di popolo, del popolo del Pd, che non è certo quello dei partiti da cui è nato ma che con abiti diversi e linguaggi differenti, forse, non è del tutto scomparso.