La vittoria delle ali sinistre della coalizione messa in piedi da Letta somiglia assai a quella di Pirro. Aver accentuato le proprie posizioni in maniera da risultare sempre più incompatibili con Calenda non aiuterà la battaglia elettorale. 

Calenda ha manifestato una sua inadeguatezza al compromesso, sposando in realtà la rigidità dei primi grillini che sbeffeggiavano Bersani in diretta web e urlavano ai quattro venti la loro inconciliabilità con sistema. Un vaffaday dei moderati per galvanizzare le sue truppe e provare la mossa del cavallo, per dirla alla Renzi, prendendosi il centro dello schieramento. Un duro vero, pensa lui, puro come pochi. Dietro di lui, Renzi sorride. Era solo e ora diventa essenziale per Carlo. Le urne diranno se esiste un centro nel Paese, ma nel frattempo il Pd ha ora la necessità di comprendere esattamente cosa offrire agli elettori. 



Le posizioni di Verdi e Sinistra italiana sono ampiamente minoritarie e divisive. Sui temi che pongono è difficile trovare una sintesi anche tra loro. Figurarsi con un partito che mira al governo del Paese. Sarebbe stato meglio averlo, Calenda, e lasciare a Letta il ruolo del mediatore, in modo da poter mantenere il punto fino alla necessaria sintesi tra la parte moderata e quella più di sinistra. Senza un centro tutto straborda su pozioni grilline. Con il Pd che si ritroverà in campagna elettorale a precisare e chiarire ogni dichiarazione di Fratoianni e Bonelli, rischiando di apparire come la quinta colonna degli estremismi e non come un partito capace di governare con alleati solidi.



I due segretari rosso-verdi sono nel pieno sconforto. Sanno che il quorum di lista anche in coalizione è obiettivo difficile e senza Calenda si perdono collegi sicuri che avrebbero aiutato tutti a trovare una collocazione. Inoltre, una campagna elettorale con posizioni alla Grillo rischia di arare un campo arido e affollato. Non possono più presentarsi come un pezzo di una coalizione che mira a vincere chiedendo all’ex elettorato grillino un voto utile a governare. Quale posizione assumere nella residua coalizione è il tema di queste ore. 

Un po’ alla disperata, si cercherà di virare sui temi sociali: immigrazione, diritti delle donne, questione generazionale. Temi importanti, da grande scenario, su cui è più semplice parlare con il Pd. Ma a settembre gli elettori avranno di fronte lo spettro della crisi e vorranno solo sapere come abbassare le bollette, combattere l’inflazione e mettere al sicuro la stabilità economica che Draghi ha quantomeno fatto avvertire. Su questo le ricette sono del tutto distanti. A partire dalla guerra in Ucraina, passando per i rigassificatori, per virare sui temi come Ilva, aiuti alle imprese, redistribuzione del carico fiscale, nulla unisce il Pd ai cespugli. Che rischiano di essere una zavorra ingombrante. Unico vantaggio per Letta è che se le liste di cespugli non facessero il quorum come nel 2018, il Pd si avvantaggerebbe di quei voti aumentando il numero dei propri eletti. Perciò i giochi non sono ancora chiusi. 



La tentazione solitaria di Letta potrebbe riemergere in questi giorni se Bonelli e Fratoianni alzassero i toni sui temi noti e divisivi per prendere visibilità, non accettando la nuova configurazione, che prevede un silenzioso e utile supporto al Pd. Uno schema come i Progressisti di Occhetto, con una gioiosa macchina da guerra che punti a un’onorevole sconfitta dopo la vittoria di Pirro di avere un coalizione più omogenea. Nel caos che regna ancora tutto è possibile.

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