Il silenzio che circonda la stranissima situazione creatasi in Perù dopo elezioni che, sebbene abbiano determinato la vittoria del candidato di sinistra Pedro Castillo, sono state contestate dall’avversaria Keiko Fujimori (che avendo accusato brogli ha di fatto bloccato il processo elettorale), è peggiore di qualsiasi rumore perché apre la porta a scenari difficilmente risolvibili e che possono addirittura portare conseguenze estreme (un po’ come in Argentina) per risolvere la questione.
Questo sebbene i controlli effettuati dalle varie organizzazioni internazionali sulla validità e la trasparenza della consultazione peruviana abbiano registrato all’unanimità la correttezza del voto e anche gli Stati Uniti lo abbiano confermato. Bisogna però considerare che fin dall’inizio dell’intera questione le perplessità sulla pericolosità di un voto tanto estremo (da una parte il Frente Popular comandato da una leader di destra e dall’altra il socialista Perù Libre con un candidato di segno diametralmente opposto) hanno di fatto posto in pericolo la democrazia in un Paese che da anni vive un boom economico notevole, ma con una crisi politica continua iniziata a causa degli effetti che lo scandalo di corruzione Odebrecht ha portato in tutto il continente latinoamericano, ma specialmente in un Perù che, a causa dei suoi effetti, ha registrato dimissioni e arresti continui di uomini politici culminati con il suicidio dell’ex Presidente Alan Garcia.
Insomma, una situazione delicatissima che minaccia fortemente non solo una divisione del Paese in due blocchi contrapposti, cosa chiara fin dall’inizio, ma soprattutto, viste le reazioni succedutesi al blocco dello scrutinio, un settarismo tra anticomunismo viscerale e populismo estremo (addirittura con radici nel terrorismo di Sendero Luminoso degli anni Ottanta) che non promette nulla di buono.
Rimane tuttora un mistero la soluzione di una simile diatriba, mentre si susseguono manifestazioni in tutto il Perù inneggianti ai due fronti, ma è facile prevedere un futuro fosco proprio a causa dello scontro descritto: dovesse essere difatti confermata la vittoria di Castillo (per una manciata di voti), lo stesso si troverebbe a governare con una minoranza parlamentare che non gli permetterebbe di esercitare il potere se non per decreto, il che in parole povere vorrebbe dire l’inizio di una dittatura, cosa in pratica già prevedibile da certi proclami fatti in precedenza. Oltretutto la caduta del Paese in un regime di stampo venezuelano provocherebbe la reazione dura dell’establishment nazionale. Ma pure con la Fujimori al potere le cose non cambierebbero di molto, visto che, dopo l’arresto nel 2018 per finanziamento irregolare della campagna elettorale, la scure della giustizia pende sulla sua testa per il suo coinvolgimento nel già citato scandalo Odebrecht e quindi il suo eventuale Governo sarebbe stabile nei numeri parlamentari, ma (esattamente al contrario di Castillo) alquanto debole a livello presidenziale.
La cosa che pare unire la situazione politica peruviana a quella di altri Stati dell’America Latina è il pericolo che corre l’Istituzione democratica e repubblicana a causa della radicalizzazione del potere che in pratica porterebbe alla creazione di dittature populiste (sia di destra che di sinistra) riproducenti la situazione drammatica del Venezuela dove in pratica le elezioni, strumento democratico per eccellenza, sono organizzate dal potere chavista e non possono definirsi minimamente libere.
Le nubi di questo processo, che porterebbe il mondo indietro nel tempo, si sono intraviste però anche in Europa e specialmente nei due Paesi latini per eccellenza, Spagna e Italia, dove si è assistito alla nascita di movimenti populisti (Podemos e 5 Stelle) che però, dopo aver vinto elezioni e conquistato maggioranze, si sono dissolti numericamente nella penisola iberica e distrutti politicamente in Italia, dove la recente iper scissione dei 5 Stelle ha messo in evidenza un totalitarismo incarnato da un leader “carismatico” (il comico Beppe Grillo) rispetto a uno politico democratico (Giuseppe Conte) il cui tentativo di scremare il Movimento dai suoi radicalismi estremi inneggianti al regime cinese pare destinato a fallire. E risolversi in una spaccatura che indebolirebbe elettoralmente un Movimento già in crisi dopo l’exploit elettorale del 2018.
Rimane però l’incognita del Covid-19 i cui effetti sull’economia già si son fatti sentire e minacciano di ingigantirsi con le criticità economiche che farebbero scattare (se viene abolito il decreto che momentaneamente li blocca) centinaia di migliaia di licenziamenti, portando il nostro Paese in una situazione critica e preda di facili estremismi politici che già fomentano divisioni tra la popolazione. Questo fenomeno, acuito da un’ormai storica falla culturale che estremizza le parti e allontana il dialogo, potrà essere evitato solo con ingenti investimenti sia nell’economia che nell’istruzione e la salute pubblica: un ritorno quindi a un passato da sempre anche giustamente criticato, ma che però, almeno fino al delitto Moro, stava portando l’Italia verso un processo di socialdemocrazia interrotto proprio dall’attentato di via Fani. Ma ormai la politica nostrana manca di figure importantissime per il sostegno della democrazia: gli statisti, ormai ridotti alla figura del solo presidente del Consiglio Draghi e pochi altri. E ciò provoca il suo imbarbarimento, favorendo la contrapposizione ideologica che, supportata dalla crisi economica, figlia dell’impoverimento culturale, rischia di riprodurre pure da noi effetti drammatici sul proseguimento della democrazia.
L’America Latina, anche attraverso l’esperienza appena citata del Perù (seppur con ragioni diverse) ce ne porta esempi e speriamo davvero che si possa coglierne la lezione in tempo per evitarne la ripetizione.
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