Sono i comuni il punto debole nell’attuazione del Pnrr e il Governo cerca di correre ai ripari con un decreto legge sulla pubblica amministrazione che dovrebbe andare domani in Consiglio dei ministri. Stando alle anticipazioni, il testo prevederebbe di rafforzare le amministrazioni che attuano il Pnrr mediante 3mila nuove assunzioni, di cui oltre un migliaio sarebbero destinate ai ministeri, e la stabilizzazione fino al 2026 dei precari che hanno lavorato negli enti locali.
Ma il problema vero, spiega Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, esperto di regionalismo, è che le riforme istituzionali della sinistra “hanno distrutto il nostro sistema territoriale”, mettendo in crisi l’attuazione di un Piano “concepito in fretta e in modo centralistico”.
Tanti progetti sono nelle mani dei comuni, ma tanti comuni, soprattutto al Sud, sono senza capacità di progettazione e risorse.
Il Pnrr è stato concepito in fretta e in modo centralistico; se si va a vedere la procedura di approvazione, regioni e autonomie territoriali sono state meno che sentite. La giustificazione è stata la premura di presentare il Piano e l’asserzione, alquanto discutibile, che gli enti territoriali sarebbero rientrati nel Piano nella veste di enti attuatori. Ovviamente, come enti attuatori, cioè soggetti che avrebbero dovuto partecipare ai bandi ed eseguire le opere, senza alcun concerto precedente e senza una strategia nazionale la loro partecipazione si sta rivelando difficile.
E qual è il motivo?
La quasi totalità dei comuni ha dimensioni tali da non potere avere un vero e proprio ufficio tecnico, ma il vero problema è che le province con i loro uffici tecnici sono state smantellate, per cui manca un ente di coordinamento della pianificazione; e le regioni ci siamo ostinati a configurarle come enti di legislazione, più che di amministrazione. Insomma, le regioni e le autonomie territoriali, per via delle scelte politiche fatte, versano in condizioni disastrose.
Quali scelte politiche?
Il Titolo V dopo la riforma costituzionale del 2001 è stato attuato in modo pessimo. È sufficiente pensare alla legge sul federalismo fiscale, per non parlare della legge Delrio (n. 56 del 2014) che è stata denunciata di incostituzionalità nel dicembre del 2021 dalla Corte costituzionale e a tutt’oggi non è stata rivista dal legislatore statale.
Sembra archiviato per il momento il tema della rinuncia a parte dei fondi e quindi dei progetti ipotizzata da Molinari (Lega). Ma è stato Fitto (FdI) a parlare per primo di progetti “irrealizzabili” entro il 2026. Secondo lei che cosa si deve fare?
I soldi del Pnrr sono in parte prestiti e in parte contributi. I prestiti vanno restituiti ed è per questo motivo che vanno investiti in opere pubbliche che generano un moltiplicatore e non semplicemente spesi. La classe politica dovrebbe sempre sapere cosa serve al Paese. Sorprende veder esprimere una rinuncia a prestiti che sono vantaggiosi e che non impattano sul Patto di stabilità e crescita che tra poco sarà di nuovo in vigore, sia pure con una diversa disciplina.
Dunque sì a tutti i fondi. E sui tempi?
Altro discorso è quello dei tempi e della richiesta che l’Italia vuole formulare di prorogare la scadenza dal 2026 al 2029. Ancora una volta la nostra pubblica amministrazione appare impreparata a gestire i fondi europei. Non è una novità, ma è l’ennesima volta, ed è per questo motivo che appariamo e siamo poco seri agli occhi dei partner europei.
Gentiloni ha parlato di rinegoziazione possibile e di flessibilità necessaria. Ieri lo hanno fatto anche Giorgetti e il commissario Ue al Bilancio Hahn. Che margini reali abbiamo?
Dobbiamo confidare sull’accondiscendenza della Commissione e sulla volontà delle istituzioni europee di non penalizzare in questo frangente proprio l’Italia, sia per le posizioni assunte in politica estera, sia per i risvolti che può assumere la crisi migratoria, rispetto alla quale gli altri Stati membri sono in debito rispetto al nostro Paese.
Perché a Bruxelles il nostro Pnrr ha vita così difficile?
Noi non sappiamo scrivere e soprattutto pensare in “europeiese”, cioè in quella lingua burocratica che, a torto o a ragione, è propria delle istituzioni europee. E così, ogni volta che c’è da scrivere programmi o accordi vediamo respinti i nostri documenti da Bruxelles. La responsabilità primaria non è dei politici, ma dei dirigenti degli uffici pubblici.
Qual è stato il ruolo e l’apporto di Draghi?
Draghi ha fatto rimodellare il Pnrr che ha trovato e ha coperto il tutto con la sua figura. In Europa, dopo avere respinto il piano predisposto sotto il governo Conte 2, non se la sono sentita di respingere quello che portava la firma di Draghi.
Perché i francesi sono riusciti a varare un Pnrr – sia pure di importo nettamente inferiore al nostro: 39 miliardi contro 191 – con i progetti che avevano nei cassetti, e noi no?
Semplice: perché nei cassetti dell’amministrazione francese c’erano progetti veri, mentre nei cassetti dell’amministrazione italiana c’erano progetti fasulli o solo idee di progetti, non progetti veri. Forse l’unica eccezione è costituita dal ponte sullo stretto di Messina, per la cui progettazione abbiamo speso già una grande quantità di denaro pubblico.
Il Next Generation Eu aveva tra i suoi obiettivi la stabilità macroeconomica e lo sviluppo post-pandemia, ma nel frattempo il mondo è cambiato. A danneggiarci è sempre il vincolo esterno.
Il vincolo esterno conta più del vincolo interno da sempre e per ogni entità politica, piccola o grande. Prima è venuta la crisi economico-finanziaria dagli Usa, poi la pandemia dalla Cina e dopo ancora la crisi energetica e la guerra dalla Russia; in più la crisi umanitaria ci tampina costantemente dal 2005 da parte dei Paesi più diseredati della terra. L’Ue e gli Stati membri in tutti questi anni hanno disperso le loro rispettive sovranità e di fatto il processo di integrazione è in una condizione di stallo: non va né avanti né indietro. Auguriamoci che nel prossimo futuro almeno l’Europa non somigli all’Italia.
(Federico Ferraù)
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