Con una implacabile sequenza siamo arrivati alla tragicommedia finale. Il dibattito mediatico, in tutte le sue forme (quelle di raffinata tecnologia, quella televisiva sgangherata e quella stampata, ormai obsoleta e screditata), oscilla tra gli ultimi “fuochi” visti all’Alcione e allo Smeraldo dei tempi epici dell’avanspettacolo e “La traviata” sceneggiata da Luchino Visconti, nel 1955, alla Scala con una interpretazione magistrale di Maria Callas.



In fondo, l’apparato mediatico riflette lo spettacolo più confuso e più caotico che si possa immaginare, dove non mancano figure e protagonisti lucidi e generosi, ma sommersi da un mare di mediocrità inquietante.

Ci sono tre problemi drammatici di fronte all’Italia del 2022. Si possono elencare senza un ordine preciso di priorità: la pandemia, la situazione economica e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, ultima sceneggiata di una politica che non esiste più.



La cosiddetta seconda repubblica, quella che al termine degli anni Novanta i “falsi intelligenti” come Massimo D’Alema, Mariotto Segni e soprattutto il “geniale” Romano Prodi indicavano come la strada per una politica italiana finalmente di valore e di spessore, si è rivelata un’autentica frana che sta definitivamente sconvolgendo l’Italia, riducendola a una colonia finanziaria dove il grande gioco era stato delegato alla magistratura in combutta con i media e alla competenza di fidati “commissari” che devono garantire una svolta geopolitica e liberista scelta dopo la caduta del Muro di Berlino e gli accordi di Maastricht.



Visti finalmente i risultati di questa famosa seconda repubblica, si colgono sempre di più segnali di insofferenza e di disaffezione. Basta guardare quanti italiani vanno a votare a qualsiasi tipo di elezione e come continua ad aumentare la disaffezione verso le istituzioni. Ma reagire, diciamo pure anche ribellarsi, a questo schema, non è semplice e anche se fosse possibile, la classe dirigente politica è letteralmente scomparsa, al punto che una sostituzione improvvisata potrebbe diventare un autentico pandemonio sociale ed economico.

Guardiamo per un attimo la sequenza dei presidenti della seconda repubblica. Oscar Luigi Scalfaro colse al volo la tragedia di Giovanni Falcone e il clima che si era creato in quel periodo verso la classe politica e i pochi magistrati veramente indipendenti proprio come Falcone (chissà perché non si ricordano mai i suoi metodi di indagine, i suoi avversari interni alla magistratura e le sue idee per una riforma tra cui la separazione delle carriere). Carlo Azeglio Ciampi sarà stato una gran brava persona, ma la sua autentica funzione era quella di garante delle banche e della svolta economica e finanziaria di fronte alle prime difficoltà, anche dopo, o forse soprattutto, le privatizzazioni, la crescita del debito pubblico e la mancanza di crescita reale che aveva caratterizzato l’Italia ancora negli anni Settanta e Ottanta.

L’elezione di Giorgio Napolitano potrebbe sembrare in controtendenza, ma in effetti non lo è, perché rappresentava l’ultimo nome rimasto nel campo del centrosinistra, mentre già cominciavano le lotte interne al Pd (il governo Prodi traballa fin dalla nascita e non ci sono candidati che uniscono il Pd, ridotto a una sorta di ircocervo malandato).

Poi, nel 2008 arriva la crisi finanziaria mondiale, dove si salvano le banche e si sacrificano gli Stati con la politica di austerity e dove entrano in pista i veri tecnocrati. C’è un salto ulteriore nel disastro. Se Mario Monti assicura la recessione, i brevi esperimenti di carattere politico sono una delusione e la reazione elettorale diventa paradossale con grillini e leghisti che diventano vincitori.

Il presidente Sergio Mattarella, eletto nel 2015, viene nominato nel solco di Napolitano, ma non riesce ad arginare l’avanzata della protesta antipolitica, che esplode letteralmente nel 2018, in fondo come conseguenza dell’antipolitica cominciata con il 1992.

Quando al perdurare della crisi economica si aggiunge la tragedia della pandemia, si ritorna allo schema classico di questi anni sventurati: a Palazzo Chigi viene chiamato Mario Draghi, ex segretario al Tesoro, ex presidente di Bankitalia, ex presidente della Bce. Giù la maschera, si ritorna duramente alla subordinazione della politica alla finanza e all’economia e il decisionismo di Draghi, a capo di una maggioranza cosiddetta nazionale, ma che non ha reali definizioni, è la rivelazione palese che occorre il grande tecnico per aggiustare la posizione geopolitica dell’Italia e avere la possibilità di superare, senza nemmeno la collaborazione vera del Parlamento, la grande crisi di questa epoca.

È la palese rivelazione della colonizzazione dell’Italia, con una credibilità riacquistata per il suo allineamento all’atlantismo, con un ruolo più determinante in Europa grazie proprio a chi per difendere l’euro disse secco e in tono di sfida “wathever it takes”. Frase vincente, ma quanto diversa dall’idealità politica dei Rosselli, De Gasperi, Schuman e Adenauer, che avevano il difetto, guarda caso, di essere politici.

Ora c’è un nuovo e decisivo fatto da considerare. In un anno la situazione pandemica sembra, con mille interrogativi, migliorata? In un anno la situazione economica sembra veramente migliorata? Il rapporto Censis mette paura e gli italiani sembrano stanchi, stressati, nervosi. Sembra che tutto sia da valutare più realisticamente che entusiasticamente come a volte capita.

Ma si aggiunge a tutto questo l’elezione del nuovo capo dello Stato, il sostituto di Sergio Mattarella. In questo momento il dibattito su questo punto è la parte più tragicomica della vicenda italiana. C’è chi dice: bisogna rispettare la “sacra” Costituzione e nominare un nuovo presidente? Oppure possiamo fare un’altra rielezione alla Napolitano?

Con la consueta abitudine a falsificare o a non comprendere la storia passata, anche quella recente, tutti prescindono dallo “schema del 1992”, l’inginocchiamento davanti alla finanza. Ecco quindi Berlusconi che si candida e Letta che risponde proponendo un Aventino, forse dimenticando chi erano Giovanni Amendola e Filippo Turati. Poi ci sono i costituzionalisti che storcono il naso. Quindi Matteo Renzi che, con il 2,5% e una serie di infiltrati, garantisce che Mattarella non sarà rieletto. C’è anche chi suggerisce un semipresidenzialismo con Draghi al Quirinale e Mattarella in pensione.

Impressionanti gli scarsi commenti alle dichiarazioni fatte dalla grande banca d’affari americana Goldman Sachs, che spera che Draghi resti a capo del governo italiano e di conseguenza Mattarella resti ancora per qualche anno al suo posto. I commenti vengono dai giornali stranieri, gli italiani preferiscono astenersi. Ma qualcuno legittimamente si chiede: si è mai visto che una banca delle dimensioni e della potenza di Goldman Sachs (anche nella crisi del 2008) “consigli” (si fa per dire) chi deve essere il capo del governo in Italia? Ma dove mai è capitata una cosa del genere?

Forse è da queste considerazioni che, seppur Draghi abbia fortunatamente rimpiazzato il catastrofico governo di “Giuseppi” Conte, si può convenire nel ribadire che il ruolo di colonia finanziaria l’Italia se l’è guadagnato a tutti gli effetti. Certo, un ruolo del genere non è edificante, ma quando si bara con la storia e con la politica ci si può solo divertire a fare scenari. Non è un quadro edificante quello che ci viene proposto. Ma un cambiamento sarebbe peggiore e le conseguenze sul piano finanziario e geopolitico sarebbero inquietanti.

Facciamoci solo una domanda: a quanto andrebbe lo spread, di cui non parliamo più, se Draghi abbandonasse il governo? E quale governo italiano si formerebbe senza Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi? Ai grandi esperti l’ardua sentenza.

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