Riflettendo sul tema della autonomia differenziata in generale risulta difficile non pensare a Sant’Ambrogio e alla nascita del rito liturgico ambrosiano. Nel il sito web della Chiesa di Milano, si legge: “L’attestazione diretta del rito ambrosiano mediante i suoi libri di altare incomincia con il secolo IX, dopo che Papa Adriano I (772-795), contro la pretesa di Carlo Magno di unificare liturgicamente l’impero, conferma alla chiesa ambrosiana il diritto di avere e sviluppare un proprio rito particolare”. E quali sono queste particolarità? Sempre dal sito web della Chiesa di Milano: “I libri liturgici ambrosiani ci attestano che il rito ambrosiano, pur in dialogo con la consuetudine liturgica romana, non si è mai a essa totalmente assimilato, potendo esibire un originale sistema di letture bibliche, un ordinamento della messa e della ufficiatura, alcuni elementi peculiari nella struttura dell’anno liturgico e nel santorale, un patrimonio eucologico, specie prefaziale, di grande rilevanza compositiva e con accenni propri, e una caratteristica tradizione testuale e melodica nel canto liturgico”.



Lungi da me l’idea di voler fondare storicamente o addirittura teologicamente l’autonomia differenziata, ma è certamente curiosa, mutatis mutandis ovviamente, la similitudine di motivazioni di alto livello che avvicina l’autonomia differenziata alla istituzione del rito liturgico ambrosiano. D’altra parte il termine “rito ambrosiano” è spesso evocato anche per identificare più in generale un modo di agire e di organizzarsi che trova i suoi fondamenti proprio in modalità di azione che sono ritenute peculiari e caratteristiche della diocesi di   Ambrogio (o almeno di una sua parte). Con questo contributo, anche se la si è presa un po’ larga, si vuole provare a mettere in fila qualche argomento, sia pro che contro, sul tema della autonomia differenziata in sanità.



La questione specifica del cosiddetto “Decreto Calderoli” si può liquidare molto in fretta, lasciandone la discussione di merito ai giuristi ed a chi se ne intende, perché si tratta di una legge puramente procedurale che, facendo riferimento alla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, vuole definire le procedure legislative ed amministrative per portare all’applicazione il terzo comma dell’art. 16, ed in particolare le intese da instaurare tra lo Stato e le Regioni che chiedono l’autonomia differenziata.

In tema di sanità, il dato di fatto da cui partire è la constatazione (al di là delle ragioni che ne sono la causa) della estrema eterogeneità territoriale che caratterizza il servizio sanitario del nostro paese, in termini di bisogni, domanda, offerta, finanziamento, erogazione LEA, …, al punto che molti osservatori (e tra questi addirittura la Corte dei Conti) parlano ormai non più di un servizio sanitario nazionale bensì di 21 servizi sanitari regionali diversi tra loro, il che configura di fatto un regime non voluto e non governato di autonomia differenziata. La preoccupazione che le proposte autonomiste possano allargare e peggiorare queste eterogeneità è il quesito più importante che pongono soprattutto coloro che sono contrari alle ipotesi di autonomia differenziata.



Argomento principe a sostegno di queste preoccupazioni è l’ipotesi che, trattenendo le regioni le risorse generate dal proprio territorio attraverso le tasse, si vengano a creare sistemi sanitari regionali ricchi e sistemi poveri (cioè un “egoismo dei territori benestanti”). Il tema dell’iniquo finanziamento, però, può essere facilmente superato in tanti modi: ad esempio, già nella proposta di autonomia avanzata quasi 25 anni fa da Regione Lombardia (presidenza Formigoni) non era previsto il trasferimento di fondi aggiuntivi. Più in generale, si può costruire uno schema di autonomia differenziata che non sottragga risorse alle regioni più povere per darle a quelle più ricche.

Un secondo aspetto critico, segnalato da tutti, è la questione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), argomento sul quale la sanità, con i LEA, ha molto da insegnare. Che una evidente disparità tra territori sia oggi costituita dai diversi servizi che vengono erogati nelle regioni è davanti agli occhi di tutti: identificare qualche meccanismo che garantisca universalità ed uguaglianza di erogazione su tutto il territorio nazionale è pertanto necessario. In proposito, cosa insegnano i LEA? In primo luogo che non basta definirli; secondariamente che vanno realizzati in pratica (perché è noto che alcune regioni in questi anni sono risultate ripetutamente inadempienti nella erogazione); in terzo luogo che è necessario prevedere delle conseguenze per la mancata erogazione. L’insegnamento più importante, però, è che i LEP/LEA non hanno nulla a che fare con l’autonomia differenziata: concepire i LEP come parte del progetto di autonomia sarebbe come dire che in sanità questa autonomia è già stata realizzata perché di fatto i LEA ci sono già da tanti anni.

Un terzo argomento è il rapporto che si dovrà instaurare tra Stato e Regioni, e più in generale tra centro e periferia. Sul punto viene richiamata innanzitutto una maggiore responsabilizzazione da parte delle regioni, e che deve però essere accompagnata da un governo centrale efficace, presente, per evitare che le regioni agiscano in totale autonomia. Ad esempio: andranno superate le attuali sfiancanti trattative con lo Stato sul tema delle assunzioni di personale o degli accordi integrativi; occorrerà fare attenzione ai contratti collettivi dei lavoratori del settore o alle decisioni che si dovessero presentare a fronte di specifici problemi (si veda il caso del contrastato rapporto Lombardia-Governo nelle primissime fasi della pandemia da Sars-CoV-2). Ancora, si potrebbe considerare l’opportunità di ampliare gli attuali meccanismi di dialogo (esempio: Conferenza Stato-Regioni) tra Enti centrali e periferici al fine di garantire universalità, uguaglianza, ed equità.

In modo analogo, almeno per le regioni più grandi, occorrerà apprezzare e valorizzare le peculiarità intraregionali, evitando di riprodurre nei propri territori il centralismo che si imputa allo stato. Accanto agli argomenti che sono visti in termini problematici ci sono poi quelli che sono invece i cavalli di battaglia degli autonomisti: due in particolare. Un primo gruppo di argomenti riguarda l’efficienza e la qualità delle prestazioni erogate. Per le materie per le quali viene attivato il principio della autonomia (vedi sanità) le regioni possono essere più efficienti dello stato nella erogazione dei servizi? E possono erogare servizi con maggiore qualità? La risposta si gioca sulla capacità di buon governo delle regioni rispetto allo stato, cioè sul fatto che una regione risulti capace di amministrare una determinata competenza in maniera migliore rispetto a come lo fa lo stato centrale. E’ una scommessa dove l’autonomia spinge le regioni ad essere virtuose, con conseguenti ricadute positive sulla spesa e sull’utilizzo delle risorse. Un secondo gruppo di argomenti ha a che fare con la sussidiarietà, intesa come tentativo di far corrispondere il livello della risposta sociale, politica ed amministrativa con il livello dell’interesse e/o del bisogno del cittadino. È l’idea di prossimità e di vicinanza al bisogno, più esercitabile da chi (pubblico o privato, non profit o profit, individuo o associazione, …) al bisogno è più vicino. Ed è un principio che si applica anche a livelli di aggregazione inferiori rispetto alla regione (ASL, distretti, ambiti, …). La sussidiarietà è il modo con cui i territori possono beneficiare di una certa “elasticità locale” per aderire meglio alle esigenze che lì sorgono.

Ne è un esempio la costruzione di reti di prossimità, aiutando ad individuare esperienze (e competenze) del territorio. Sempre ad esclusivo titolo di esempio, la Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) può essere erogata in forme e modalità che si caratterizzano localmente. La scelta sussidiaria è capace di coinvolgere nei servizi sanitari e sociosanitari il volontariato, che ha dimostrato di saper intervenire in situazioni diverse anche complesse. E così via con gli esempi. La realizzazione del PNRR (case ed ospedali di comunità, …) e le proposte possibili sul tema della autonomia differenziata offrono l’opportunità di introdurre strumenti favorevoli alla adozione di interventi sussidiari, anche a livello regionale.

Da ultimo, e sempre prendendo spunto dall’esperienza sanitaria, sarà fondamentale pensare ad un sistema di monitoraggio e valutazione, che preveda non solo di misurare le performance delle regioni ma anche di identificare azioni conseguenti all’esito valutativo. Gli scenari che possono stabilire le caratteristiche della autonomia differenziata sono ancora al di là dall’essere definiti e non sarà certo l’esito del “decreto Calderoli” a chiudere la partita. Per altro, tra le opzioni in teoria possibili vi è anche (ma non è il caso di chi scrive) chi sostiene di togliere la sanità dalle materie oggetto della scelta di autonomia differenziata.

 

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